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blake_meditazioni.jpg (56032 byte)Credo di poter dire che sia questa, oggi, la mia esperienza di religiosità; una ricerca, spinta dal desiderio o, forse dalla necessità di nesso, di senso, di dare spazio al senso, ma non tanto, o non solo, come riflessione teorica quanto come un emergere, un farsi cosciente di certi stati che, alla maniera della poesia, sollecitano, suggeriscono, vibrano tra relativo e assoluto, scorrendo, fluendo con la vita tra tempo presente e tempo infinito Forse perché la poesia nasce, se nasce, solo come estrema necessità, una necessità che emerge e trova forma sintetica fra commozione profonda e pensiero nel farsi parola.

"Il poeta è l’uomo divorato dalla nostalgia….., asfissiato più di chiunque altro per la ristrettezza di quello che ci viene dato, avido di realtà, di intimità con tutte le forme possibili di essa. La poesia vuol essere una preghiera volta a scoprire tale realtà, di cui ritrova una traccia confusa nell’angoscia che precede la creazione."

Così dice M.Zambrano in Appunti sul tempo e sulla poesia.

E in questo credo che la poesia dia voce anche a quel tratto della condizione umana che si presenta come desiderio di trascendere i limiti della banalità - ovvero dei bisogni istintuali intesi come consumo e avidità - e diventa sfida, tensione, tra ragione e sentimento, nella necessaria accettazione della ragione critica, e del suo uso, e contemporaneamente nella speranza, o intuizione, anche di un movimento, di una spinta verso un’armonizzazione "possibile", forse per istanti, forse per frammenti, tuttavia "possibile", in questa vita, con questo corpo, con questa parola.
Non è forse questa, in Jung, la potenzialità auto-equilibratrice dell’inconscio, la sua spinta alla trasformazione, all’individuazione, come se fosse già parte di un progetto della Natura?

Sono consapevole di come, detto così, tutto ciò possa essere avvertito come privo di un significato forte, perché privo di potere salvifico, come un puro moto espansivo dell’anima, e del corpo, una sfida appunto, se non addirittura come un mezzo per sfuggire all’angoscia. Forse è così; non ho nessuna certezza in proposito, perché non so cosa altro esista al di là dello psichico.
Ho coscienza ed esperienza della nostra precarietà e, inoltre, ho ben presenti gli orrori della Storia, passati e presenti. Eppure… penso che la dimensione dello psichico possa davvero ri-aprire all’ascolto dell’altro, dell’altro in noi e fuori di noi, e quindi, di conseguenza, alla relazione e al dialogo: al dialogo, che può essere faticoso, perfino estenuante – c’è chi BLAKE_The  ancient of Days (web).jpg (17935 byte)dice che non serve a niente, che porta solo a una perdita di tempo –, ebbene, questa perdita di tempo, potrebbe, forse, essere una possibilità di speranza. Forse, mille volte forse, con tutte le difficoltà e gli inciampi di cui siamo consapevoli, questa perdita di tempo potrebbe portarci verso una qualità di incontro, che sia più consapevole del rispetto per se stessi e per l’altro che non della sola esigenza di esprimere liberamente se stessi; cosa questa che, per bellissima e necessaria che sia, non mi pare possa, in sé, da sola, condurre ad esiti molto diversi da quelli attuali, di un narcisismo disperato.
Esiste la possibilità di un’altra forma di narcisismo, un buon narcisismo, come dice un amico, cioè quello di chi desidera esprimere se stesso, confrontare se stesso con l’altro e fare dell’ascolto dell’altro, del dialogo con l’altro, di questa relazione dentro e fuori di noi, di questa reciprocità, il nucleo germinale di un atteggiamento non solo privato ma anche sociale. In Io e Tu, Martin Buber dice che:

" L’uomo diviene Io a contatto col Tu", in un sentimento di dipendenza e reciprocità attiva, e in un sentimento di relazione con l’altro e con l’unità cosmica.

Mentre in Essere Due di Luce Irigaray troviamo:

"L’altro in quanto tale, l’altro che garantisce l’irriducibile alterità, appartiene al genere che non è il mio…
L’altro della differenza sessuale è al tempo stesso contiguo a me e trascendente a me, sia soggettivamente che oggettivamente: è corpo e spirito, corpo e intenzione, inclinazione e libertà."

Secondo me, i poeti, questo non lo hanno dimenticato mai; da questo, loro, non si sono distratti mai. E, penso, neanche gli amanti.

"L’amore mi mette dentro il tempo, le soglie, la morte e la vita. Senza amore non sento la morte, la vita, l’altro. E mi mancano. (Un amico)

Forse perché si tratta di un’esperienza, generalmente naturale, che può fluire per vie diverse e spontanee, ed essere deviata, per poi blake_Figura sulla roccia(web).jpg (22913 byte)ritornare a fluire, ma che, probabilmente, per alcuni di noi che ne hanno avuto bisogno, si è ri-modellata proprio sulla qualità di un incontro, quello analitico, che, nell’ascolto dell’inconscio, ha ri-aperto alle potenzialità ricettive, all’integrazione di una dimensione capace di illuminare ed accogliere questa necessità primaria, questa qualità della relazione tra esseri umani; una dimensione a partire dalla quale si torna a sapere che ciò che parla tra gli individui non è solo ciò che è conosciuto, ma anche ciò che non lo è, e della cui contraffazione si incominciano ad avvertire i grandi rischi, visto che già si annuncia che la depressione sarà la malattia sociale del secolo appena nato. Non è un percorso riduttivo se non vuol dire rinchiudersi in un isolamento solipsistico, perché è sempre della stessa circolarità, della stessa scommessa che si parla; non è neppure un percorso salvifico, ma noi sappiamo che ha almeno un tratto di verità: perché si tratta di qualcosa di reale che qualcuno di noi ha tentato di compiere in forma privata, e che ha trasformato la nostra vita e il nostro punto di vista sulla vita.

Dice Salvatore Natoli nel suo Dizionario dei vizi e delle virtù :

"L’individualismo moderno è stato la via regia dell’emancipazione: nulla da rinnegare. Ma per ritrovare noi stessi e reciprocamente ritrovarsi, bisogna accedere a una regione più profonda, a una superiore pietà. E’ necessaria quella che amo definire un’etica del finito."

Tra i testi raccolti, ho scelto la citazione da Luce Irigaray, perché nei suoi ultimi libri, pur partendo da premesse e esperienze molto diverse, questa stessa cosa, questo desiderio di attenzione e reciprocità attiva, viene espresso sotto l’aspetto del rapporto d’amore, del rapporto a due, dopo aver messo l’accento, fra gli altri, su due elementi: la tanto vagheggiata fusione inconscia, come vera e propria regressione che tenta di chiudere nell’impostura la nostalgia e il desiderio di intimità e di relazione, e il misconoscimento della questione dei generi sessuali. Qui la differenza sessuale e individuale, una volta abbandonate le difese, diventa allo stesso tempo trascendenza e complementarietà, percorso per la trasformazione e individuazione del singolo, che all’altro tende, ma nel confronto e nella libertà; nel tono lirico e nelle parole – le ali, il soffio, il respiro, l’aria che sorregge il dono reciproco in uno scambio privo di avidità - si avverte chiaramente un anelito all’essenza, alla verità, a quelle verità prime che si intuiscono nei momenti più alti, o più bassi, della vicenda umana. Ha il tocco lieve del gioco, del volo ma solo perché sa del suo rovescio: la paralisi, seduzione, violenza. E sembra una preghiera o, meglio, un abbandonarsi: alla vita, appunto, all’amore affinché da loro si dischiuda un tratto di verità, un tratto di sintesi, il segreto. Ma, abbandonate le difese dell’Io, cosa altro parla? E, soprattutto, come parla quando facciamo Silenzio?
Per Giovanni della Croce, il Silenzio, l’Ineffabile è il Divino: la sua Presenza certa.

"... ....
Più salivo in alto
più il mio sguardo s’offuscava,
e la più aspra conquista
fu un’opera di buio;
ma nella furia amorosa
ciecamente m’avventai
così in alto, così in alto
che raggiunsi la preda.
Quanto più sfioravo il sommo
di questo esaltato furore,
tanto più mi sentivo
basso, arreso, domato.
... ..."
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Anche per William Blake, è così, ma il Divino è nell’uomo, tutto è nell’uomo, tutto il male e tutto il bene del mondo si dischiudono nei suoi versi: dagli abissi dell’inconscio affiorano, con consistenza e intelligenza visionarie, forme umane e divine, nelle loro agghiaccianti o armoniche simmetrie. Sono le immagini oniriche cui noi siamo ormai abituati, che qui emergono in una visione tragica di grandissima sincerità e potenza; sono i simboli di trasformazione psichica che si fanno parola, efficace ed immediata, senza perdere però niente della loro ricchezza allusiva; sono i peccati e le virtù che assumono consistenza umana; sono le coppie di opposti in cui si dibatte la nostra vita che si animano attraverso le sue parole; ed è un anelito alla sintesi quella preghiera che si volge all’Umana Forma Divina, ma senza sconti, perché avvertita anche nella sua spaventevole ambivalenza.
E come non sentire, in profondità, vibrare gli stessi echi, la stessa talvolta disperata religiosità nei versi folgoranti della Dickinson, nel loro alternarsi tra grazia e angoscia: il "granello di sabbia", il "fiore selvatico", l "Infinito nel cavo della mano" , in una parola l’Umano Mondo Divino di Blake che, diversamente, molto diversamente, torna, affiora e si rifrange nell’Infinito Finito di un’anima ammessa alla presenza di se stessa, un’anima che si interroga. Non c’è niente, qui dell’anarchico furore di Blake, ma c’è la stessa appassionata, totale fedeltà alle proprie voci interiori, ai propri silenzi, la stessa integrità nella ricerca della verità, dell’essenza. L’Infinito Finito. Il Segreto Parlato, che, qui, nella Dickinson sembra già presagire anche il Silenzio, l’assenza del Divino.

"Due volte si è chiusa la mia vita
prima di chiudersi. Ora non mi resta che attendere
se l’immortalità mi sveli
un terzo evento,

immenso, inimmaginabile, impossibile
come questi, due volte accaduti.
La separazione è tutto ciò che sappiamo del Cielo,
e tutto ciò che vi basta sapere dell’Inferno.

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