Pag. 2

Autunno.gif (6677 byte)

Dioniso: l’eros e la foresta

Manet le dejeuner.jpg (21220 byte)Artemide e Dioniso sono le figure mitiche "forestali" del mondo greco.
Artemide, descritta come vergine, indifferente, crudele, inaccessibile, a volte invisibile, è anche dea della nascita, madre e allo stesso tempo personificazione della natura selvaggia, essenza della foresta che dà vita ai suoi elementi. Artemide è cacciatrice - lei che insegue le fiere col suo seguito di ninfe - e allo stesso tempo protettrice delle sue prede: in opposizione all'ordine e alla logica che l'uomo si sforza di dare a ogni manifestazione del reale, Artemide è la figura che più di ogni altra rappresenta la molteplicità della foresta, il luogo per eccellenza in cui sembrano ritrovare unità gli elementi che la ragione umana è abituata a separare.
Il suo fratellastro Dioniso, invece, rappresenta l'elemento di contatto col mondo umano: è sfrenato e dissoluto, ama il vino ed è pura espressione di benessere fisico e di gioia di vivere. Le forze primigenie della foresta lo animano di una energia vitale di cui egli è il messaggero presso gli uomini.
Secondo il mito, Dioniso fu nutrito e allevato dalle ninfe per volontà del padre e trovò nelle selve la sua dimora, dove si aggirava cinto di edera e di alloro, a sua volta seguìto da un corteo di ninfe. In questo aggirarsi per i boschi con un corteggio di divinità minori, così come nel fatto di essere allo stesso tempo cacciatore e protettore di animali selvatici, esiste sicuramente un elemento di contatto fra Artemide e il suo fratellastro. wpe1.jpg (12814 byte)

Le Baccanti (3) di Euripide ci presentano Dioniso come un dio che viene a separare ciò che la legge civile tiene unito, a creare caos dove c'è ordine, a far accettare all'uomo, in un insieme inquietante, ciò che nella vita civile egli abitualmente distingue nelle categorie del bene e del male. Nei suoi cortei, a cui partecipano le ninfe Amadriadi e i satiri, il piacere non si presenta né con la maschera del bene né con quella del male, ma con quella della totalità.
Che la figura di Dioniso porti con sé elementi trasgressivi, lo conferma il fatto che le donne tebane - secondo quanto riporta Euripide nella sua tragedia - vengono sconvolte dal suo arrivo, che al pari di un terremoto mette a soqquadro l'ordinamento sociale e le leggi della città: è come se con lui arrivasse la follia. Le donne fuggono e si ritirano nelle foreste, avvolgenosi in pelli di daino e cingendosi il capo con fronde di quercia e di edera, mentre i serpenti si attorcigliano ai loro corpi e i cuccioli di animali selvatici succhiano il latte dalle loro mammelle. E quando esse agitano i loro fallici bastoni e iniziano una danza sfrenata, cantando e invocando il dio, tutte le creature della foresta vengono contagiate dal clima di ebbrezza.
Ma il tema centrale della tragedia di Euripide è un altro, cioè l'uccisione da parte di una di queste donne, Agave, del figlio Panteo che si oppone al culto del nuovo dio. Il dramma si consuma quando egli va a spiare un rito nascondendosi sugli alberi e viene scambiato, dalla madre in pieno furore dionisiaco, per un leone.
Dioniso si propone quindi come elemento di massima trasgressione, al punto da minare l'istituzione che sta alle fondamenta della società, la famiglia (4).
Al di là dei riferimenti sessuali, è evidente che il culto di Dioniso porta in sé l'erotismo di ciò che è veicolo di elementi di novità: il "nuovo" da sempre è depositario di un livello energetico devastante, come se possedesse una carica esplosiva capace di far saltare in aria qualsiasi legge e convenzione. La percezione di qualcosa del genere, al di là del "nuovo" omologato dalle mode, è possibile soprattutto nei rari momenti in cui l'uomo avverte la sensazione di essere fuso con la natura che lo circonda, come se la Memoria dei Tempi lo avvolgesse in una sorta di incantesimo: come se, animato dal dio dell'eros, andasse in qualche selva misteriosa a fare il pieno di energia, restituendola poi amplificata agli elementi selvatici, in una sorta di interscambio in cui le risorse crescono, invece di esaurirsi.

venus_carracci.jpg (23626 byte)Le foreste, ombra della civiltà è il titolo di un trattato in cui Robert Harrison (5) ha cercato di dare una fisionomia a ciò che l'immaginario occidentale proietta nelle ombre delle selve, lungo un margine imprecisato fra due dimensioni in cui l'uomo si spoglia delle proprie sovrastrutture e lascia riaffiorare alla superficie l'altro, quello che in epoca vittoriana Braham Stocker definì il "non morto", colui che non si cura delle convenzioni e delle leggi.
Torniamo per un attimo all’antica Roma: quando Romolo fondò la città eterna sull'acquitrinoso Palatino per fare in modo che la popolazione della sua città si accrescesse, decise di assegnare lo spazio inospitale tra il Quirinale e il Capitolino ai vagabondi e i delinquenti che si aggiravano per le foreste, non dimenticando così le sue origini di figlio della selva. Nelle paludi e nelle boscaglie di quel territorio suburbano i banditi dalla società potevano trovare una zona franca, un asilo (lucus asylii) dove nessuno li avrebbe disturbati a patto che nessuno fosse disturbato da essi (privilegio che, col tempo, fu esteso a tutte le sacre selve, ai templi e, fino al XVII secolo, anche alle chiese cristiane). Sono le fondamenta dell’antico diritto romano in fatto di foreste, caratterizzato dalla netta la distinzione fra lo spazio del vivere civile - la città e le proprietà rurali dove si amministrava la res publica - e i margini delle selve, in cui la res publica si fermava e iniziava la res nullius, il lucus neminis, la terra di nessuno.
Un concetto era quindi già chiaro nella coscienza dei nostri antenati: la legge era il cardine su cui far girare la civiltà, mentre l’ombra di questa aveva diritto ad alloggiare, segregata, nei boschi.
Se il Medioevo è stato il periodo storico che ha maggiormente demonizzato la selva, vedendovi il simbolo del peccato, è anche perché nella realtà essa ha continuato a costituire il lucus asylii degli emarginati. Se soprattutto nell’alto Medioevo nelle foreste vivevano i briganti, gli eremiti, gli appestati e i pazzi, anche in seguito esse hanno continuato a rappresentareMillais foresta.jpg (55282 byte) nell’immaginario occidentale il ricettacolo degli emarginati e dei fuorilegge - chiedere conferme a Robin Hood, a Don Chisciotte e al Barone rampante -, come se la civiltà vi accumulasse le proprie rughe, la propria stanchezza e i propri orrori.
Fra gli emarginati della foresta, oltre agli uomini banditi dalla legge, trovavano asilo anche gli eremiti, uomini pii che avevano rifiutato il potere temporale della Chiesa e che si erano rifugiati nei boschi a meditare e a pregare Dio secondo un canale più diretto di quello rituale che offriva loro l'istituzione religiosa.
Ebbene, nelle selve i pii eremiti e i feroci briganti hanno finito per incontrarsi.

Un episodio della vita di S. Francesco, non si sa fino a che punto reale o romanzato, è esemplificativo: nella foresta casentinese della Verna in cui il santo si era appartato in preghiera, è ancora possibile fare un percorso lungo un sentiero fino ad arrivare al "masso di fra' Lupo", un dente di roccia che si stacca dal massiccio e che sta sospeso a precipizio alcune centinaia di metri al di sopra della vallata. In questa foresta - dice la leggenda - si incontrarono il santo e il bandito, Francesco e Fra' Lupo, personaggi antitetici come rappresentazione del bene e del male ma accomunati dall'emarginazione, in altre parole dal fatto di vivere in quelle che Harrison ha definito le ombre della civiltà. E' così che il bandito Lupo, il quale rapiva i benestanti della zona e poi li nascondeva sul suo masso fino a che non fosse pagato il riscatto, dopo avere incontrato Francesco che andava lì a parlare con Dio, decise di convertirsi e di percorrere sentieri migliori.
Non si sa bene come sia andata in realtà, e questa non è una novità per gli avvenimenti che riguardano la vita del Santo di Assisi; però è suggestivo pensare che il bandito - ombra della legge - possa essersi convertito dopo avere incontrato il santo - ombra della religione .
Le foreste, insomma, sono piene di ombre, e andando a cercare meglio si possono incontrare anche quelle dell’eros. E siccome - parafrasando Jung - "l’ombra è tanto più nera e densa" (6) quanto più è scomoda, ecco che le ombre dell’eros furono particolarmente dense in epoca vittoriana.

 

Le ombre dell'epoca vittoriana

John Fowles, ne "La donna del tenente francese" (7) descrive con poche, efficaci immagini l'epoca vittoriana:

Che cos'era l'ottocento? Un'epoca nella quale la donna era sacra, e si poteva comprare una ragazza di tredici anni per poche sterline, o pochi scellini se la si voleva soltanto per un'ora o due. Nella quale si costruirono più chiese che in tutta la precedente storia del paese, e a Londra una casa su sessanta era un bordello (la proporzione moderna sarebbe pressappoco una su seimila). Nella quale la santità del matrimonio (e della castità prematrimoniale) era esaltata da ogni pulpito, in tutti gli editoriali e nei pubblici comizi, e grandi personaggi pubblici - dal futuro re in giù - conducevano una vita assolutamente scandalosa... Nella quale il corpo femminile era più che mai celato agli occhi indiscreti, e i meriti degli scultori erano valutati in base alla loro capacità di scolpire donne nude. Nella quale non esiste un romanzo, una commedia o una poesia di un certo livello letterario che si spinga oltre la sensualità di un bacio... mentre la produzione di opere pornografiche raggiungeva un livello mai superato... nella quale si sosteneva all'unanimità che le donne non hanno orgasmo, e si insegnava a ogni prostituta come simularlo. Nella quale ci furono progressi enormi in tutti gli altri settori dell'attività umana, e soltanto tirannide nel più personale e fondamentale.

Cezanne Dentro una foresta.jpg (20908 byte)L'epoca in cui regnò la regina Vittoria, caratterizzata da grandi successi militari e da una notevole espansione coloniale, fu a dir poco contraddittoria. Durante il suo regno l'Inghilterra divenne la nazione più ricca e potente del mondo, ma anche il paese degli abissi sociali: alle riforme e alla prosperità si accompagnava una spaventosa miseria, tanto che nei quartieri operai la gente viveva in condizioni ai limiti della decenza e i bambini erano costretti a lavorare fino a diciotto ore al giorno.
In quell’epoca dai grandi contrasti così difficili da accettare, a conciliare il tutto intervenne la comoda ipocrisia, accompagnata dal suo fedele compagno, il moralismo: ne scaturì una repressione che, curiosamente, accomunò la donna e la natura.

Pag.1 doorin2.gif (3615 byte)   doorin.gif (3582 byte) Pag. 3