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La foresta violentata

L'immagine più famosa della foresta violentata dalle macchine industriali, forse è quella riportata ne L'amante di Lady Chatterley. E' il guardiacaccia Mellors, subito dopo il primo incontro amoroso con Constance, che vive il contrasto tra la pace del bosco e i rumori dei macchinari che la turbano senza nessun rispetto:

Egli discese di nuovo nell'oscurità e nella solitudine del bosco. Non sapeva che la solitudine del bosco era un'illusione. I rumori industriali turbavano quella solitudine; la crudezza delle luci, per quanto visibili, era un'irrisione. Non si poteva più vivere soli e ritirati. Il mondo non tollera gli eremiti. E ora aveva preso quella donna e attirato su di sé un nuovo ciclo di dolori e di condanne. Perché sapeva per esperienza che cosa volesse dire. Non era colpa della donna, e neppure colpa dell'amore o dei rapporti sessuali.
La colpa era lì, in quelle malefiche luci elettriche, nello strepito diabolico delle macchine. Lì, nel mondo dell'avidità meccanica, del meccanismo avido, dell'avidità meccanizzata nel mondo scintillante di luci, che vomitava metallo incandescente e risonava dei rumori del traffico; lì era il male immenso, pronto a distruggere tutto ciò che gli si opponeva. Presto avrebbe distrutto il bosco, e le campanule non sarebbero fiorite più. Tutte le cose vulnerabili dovevano perire sotto lo scroscio e il colare del ferro.

E’ l'epoca della seconda rivoluzione industriale, quella che ha dato all'Inghilterra uno sviluppo tale da meritare la definizione di era industriale per eccellenza. Soprattutto l'industria carbonifera sta alterando il paesaggio - e non solo quello - perché la rivoluzione in atto è anche una rivoluzione culturale, spietata nella logica della produzione e nella ricerca del profitto che sembra divorare tutto, comprese le foreste e la loro suggestione.
La colpa di un imminente "nuovo ciclo di dolori e di condanne" non è di Constance, e nemmeno del sesso e dell'amore; la colpa è nelle macchine che strepitano in modo diabolico, nell'avvento dei non-valori e soprattutto dell'avidità che distrugge tutto ciò che a essa si oppone, compresi il bosco e le campanule, destinate a non fiorire più. La nuova era avrebbe distrutto tutte le cose vulnerabili, dotate di vitalità e in cui l'uomo proietta ciò che ha di migliore. Anche la purezza del sesso e la sua carica energetica sarebbero state sopraffatte dalle macchine, non solo le foreste: da qui nasce la nostalgia per una immagine immacolata della natura che sta per essere scacciata dal "nuovo" spietato che avanza.
L'epoca vittoriana si riassume bene in queste angosce, perché la sua falsità, la sua ipocrisia e la sua repressionesierra_nevada_calif.jpg (18803 byte) corrispondono alla mortificazione di ciò che nell'uomo alita in modo più autentico, qualcosa che non può convivere con la legge della domanda e dell'offerta, con il pulsare angoscioso dei macchinari e con chi li aziona per produrre danaro e ordine sociale, i nuovi valori dell'epoca.
Il tema dell'industrializzazione come soffocamento delle libertà umane è una costante dell'opera di Lawrence. L'amante di Lady Chatterley fu scritto fra il 1926 e il 1928, quando la regina Vittoria era ormai morta da venticinque anni. Le ferite di quell'epoca, però, non si sono cicatrizzate troppo in fretta, anche perché esistono ferite peggiori di altre e ogni popolo ha le proprie. La purezza sfrattata dall'epoca vittoriana, al pari della natura scacciata dall'industrializzazione e dall'utilitarismo, chiedeva ancora il risarcimento di danni alla società inglese, e non è escluso che ancora oggi lo stia facendo.
In quei tempi così bigotti e formali, il mistero e le atmosfere torbide e inquietanti rivestirono ovviamente un notevole fascino, tanto che gli artisti più sensibili proposero un tipo di letteratura volta a risvegliare le parti più represse dell'uomo, quelle che la cultura del tempo aveva relegato in una buia stanza degli orrori. Bisognava andare proprio lì a cercare l'altro, l'ombra che doveva essere così nera e densa. E autentiche ombre emergono dalla produzione letteraria britannica di quegli anni, da Lo strano caso del dottor Jekill e Mister Hyde di R. L. Stevenson a Dracula di Bram Stocker.

 

Le ombre della notte: Dracula il vampiro

In un castello immerso nelle selve primigenie dei Carpazi vive Dracula.

Bram Stocker, l'autore del celebre romanzo epistolare scritto nel 1897, si ispirò a un personaggio realmente esistito nel XV secolo, Vlad Tepes, signore di Valacchia, che i suoi sudditi avevano soprannominato Dracul, cioè diavolo. Dopo un attento studio, nel romanzo furono trasposte anche le leggende e le tradizioni della Transilvania sui vampiri, e così nacque Dracula(8) , che si inserì nel filone dei romanzi dell'orrore e del mistero dell'epoca.
Il protagonista del romanzo, Jonathan Harker, parte da Monaco per un viaggio di affari nel ferro di cavallo dei Carpazi, regione in cui "si annida ogni genere di superstizione conosciuta nel mondo": lì, protetto nel suo castello, lo aspetta il conte Dracula.
Man mano che Jonathan si avvicina al maniero del conte, il paesaggio assume contorni sempre più paurosi:

Col calar della sera, incominciò a far molto freddo e la penombra si mescolava alla nebbiosa oscurità dei boschi, di querce, larici e pini, mentre le valli che si aprivano profonde tra le montagne, a mano a mano che salivamo verso il passo, gli abeti sorgevano scuri contro lo sfondo della neve. Quando la strada tagliava tra i boschi, gli abeti sembravano chiudersi intorno a noi... sulle montagne che ci circondavano, si levò un altro coro di ululati, più forte e acuto, urla di lupi, che provocarono in me e nei cavalli la stessa reazione: il desiderio di balzare dal calesse e fuggire.. Ben presto fummo circondati da alberi che spesso si univano sopra di noi, come in una galleria. Di nuovo, grandi massi severi ci guardavano dalle due pareti.

E' un paesaggio inquietante, gli alberi sorgono scuri e la foresta appare minacciosa e opprimente.
Quando, arrivato a destinazione, il protagonista prende coscienza di trovarsi realmente prigioniero all’interno del castello del suo ospite, dalla finestra della camera in cui è stato sequestrato può vedere un panorama notturno allo stesso tempo magnifico e spaventoso: le foreste, le rocce e i precipizi si manifestano in tutta la loro ambiguità, mentre in Johnatan la ripulsa si somma al desiderio di fuga.

Il panorama era magnifico e da quel punto lo si godeva tutto. Il castello si trova sull'orlo di un terribile precipizio. Una pietra, cadendo dalla finestra, precipiterebbe per centinaia di metri senza toccare nulla! Fin dove l'occhio può spaziare, si vedono soltanto le cime verdi degli alberi e ogni tanto un crepaccio. Qua e là si scorgono fili argentei; sono i fiumi che scompaiono nelle gole profonde o nelle foreste.

Johnatan non sa ancora che quelle foreste agghiaccianti sono il paesaggio in cui ogni notte si specchia Dracula, la metà oscura che magari si occulta proprio in una zona d’ombra del giovane e brillante uomo d’affari, una parte scomoda nascosta Bierstadt 2.jpg (11228 byte)in una tomba. Nessuna tomba, d’altronde, può impedire a ciò che è nosferatu (Traduzione dal rumeno: "non morto") di uscire di notte a reclamare il proprio diritto a esistere.
Cos'altro è contenuto in quella tomba, se non la sessualità sfrenata, l'istinto, la passione pura, l'animalità, le potenze notturne che sopravvivono nell'oscurità e che ogni buon vittoriano aborrisce? Nelle segrete del castello del Conte di Transilvania si occulta qualcosa che socialmente appare come un male. Eppure si tratta di una categoria di male del tutto particolare, perché quel male, per sopravvivere, si nutre della virtù che scorre nel sangue delle vergini: del resto, anche le vampire del castello di Dracula alimentano la propria sensualità col sangue dell'ingenuo Johnatan, in un’orgia in cui il bene e il male si congiungono.
Esiste, in una terra segregata dalla civiltà e sperduta fra le foreste della Transilvania, un luogo in cui l’ambiguità è al potere: lì, le categorie partorite dalla morale umana non possono vivere separate. E come il conte Vlad, signore della notte, trae alimento dall’anima di Mina attraverso il fluido che racchiude il segreto del passaggio dalla vita alla morte, a sua volta la vergine subisce il fascino del vampiro che nell'immaginario di lei - cittadina londinese di buona famiglia - viene "da una terra al di là di una grande, vasta foresta, circondata da montagne maestose". Mina non ha mai visto la terra di Dracula, ma c'è qualcosa che gliela fa descrivere come se l'avesse sempre conosciuta, come qualcosa di familiare che appare in sogno, proveniente da tenebre interiori.

Dracula, come mister Hide, è il classico personaggio notturno partorito dall'immaginario vittoriano: la tomba in cui il vampiro dorme di giorno è un paradosso come può esserlo quello della società inglese, che in analoghe tombe aveva mandato a dormire energie e fantasia, sensualità e voglia di vivere, mettendoci sopra un bel coperchio luccicante di pudori e di formalismi. Ma nella notte, mentre gli altri dormono, nosferatu si risveglia e ascolta con voluttà il canto lugubre dei lupi che viene della foresta, chiamandoli "figli della notte" come se fossero i sudditi del suo regno.
Dalla foresta dei Carpazi, un uomo ribelle chiamava a raccolta gli istinti repressi da un perbenismo ipocrita che aveva cercato di salvare la faccia all’arroganza dell’epoca vittoriana. Perché in quell’epoca, nonostante tutto, non si era potuto evitare che interi paesi dell'Impero e interi quartieri di Londra fossero devastati dalla miseria e dalla malattia. E nemmeno si era potuto evitare che la sessualità trovasse sfoghi morbosi in luoghi e modi imprevisti.
Le creature selvatiche che circondano il castello di Dracula, col loro ululato rivolto alla luna evocano una notte in cui sono immerse foreste abitate da creature scomode, che però non si possono mettere da una parte per poi disfarsene come si fa col pattume.
L'unica strada da percorrere, così sublime da andare oltre la distinzione fra il bene e il male, è l'amore: proprio nell’amore Dracula troverà alla fine la redenzione da una vita maledetta.

 

La foresta della passione liberata: Constance

La sessualità occupa una posizione centrale nel più famoso dei romanzi ambientati in epoca vittoriana. Ne L'Amante di merced_river_yosemite_valley.jpg (25384 byte)Lady Chatterley (9), David Herbert Lawrence ha cercato di dimostrare come sia possibile dare un vero equilibrio alla vita umana solo attraverso la liberazione degli istinti più profondi e repressi: con l'erotismo l'uomo scandaglia nel profondo del suo essere, e l'erotismo è un valore autentico, contrapposto a quelli di un'epoca legata a doppio filo all'ipocrisia.
Disse in proposito Lawrence: "La vita è sopportabile solo quando lo spirito e il corpo vivano in armonia, e l'uno abbia per l'altro un naturale rispetto".
Per lo scrittore il primo dovere di ogni uomo cosciente era quello di "combattere la grande menzogna dell'ottocento, che ha impregnato il nostro sesso e le nostre ossa", affrontare e poi sconfiggere la vittoriana mortificazione del corpo. Perché essere uomo nella propria totalità significa fare della coscienza erotica il punto di riferimento della vita, e possedere la donna con lo spirito e con la carne rappresenta l'unico mezzo di sfuggire a una visione falsa e convenzionale dell'esistenza.

Il supremo piacere dello spirito! Che cos'è per una donna? Che cos'è in realtà anche per un uomo? Rende ogni cosa confusa e infantile, anche lo spirito. Occorre sensualità, schietta sensualità, anche per purificare e ravvivare lo spirito. La schietta, ardente sensualità, non la torbida passione per la carne.

Teatro della vicenda, e spesso autentico protagonista, è il parco di Wragby Hall, un bosco di querce secolari la cui immagine contrasta in modo stridente con quella del fumaiolo di una miniera che si staglia in lontananza. Wragby Hall è la dimora di Sir Clifford, il marito di Constance, uomo rispettabile, autoritario e moralista, la cui vita esangue e squallida è ben sintetizzata dalla condizione di impotenza in cui si trova. Il parco, dove la vita si svolge secondo leggi naturali e dove vive il guardiacaccia Mellors, è invece il luogo in cui si scatenano il senso di libertà, la fisicità e la sessualità repressa di Constance.
L'approccio di Constance al parco è emblematico: inizialmente le appare come un luogo di fuga dalle convenzioni, un rifugio, e il mistero che da esso emana sta come a suggerire alla donna quello le che cova negli angoli in cui i suoi istinti sono stati compressi. Ma soprattutto nel bosco c'è vita, anche se non è proprio un senso di gioia di vivere quello che Connie prova in una delle sue prime passeggiate:

Connie avanzava come alla cieca. Dal bosco antico veniva verso di lei una malinconia che la leniva un poco e valeva più dell'aspra insensibilità del mondo esterno. Le piaceva tutto ciò che era interiore in quell'avanzo di foresta, la reticenza muta dei vecchi alberi. Sembrava che fossero una potenza di silenzio, e tuttavia avevano una presenza vitale. Anch'essi aspettavano: aspettavano ostinatamente, stoicamente, ed esalavano una potenza di silenzio. Forse non aspettavano che la fine: essere abbattuti, portati via, la fine della foresta, per essi la fine di tutte le cose! Ma forse il loro silenzio aristocratico e tenace, il loro silenzio di alberi tenaci, significava qualcosa di diverso.

Nel parco alita il senso della necessità di tutte le cose, la silenziosa e aristocratica attesa della morte, accompagnata da una spaventosa carica di energia che si nasconde da qualche parte e che viene evocata da espressioni come "potenza di silenzio" e "presenza vitale": è come se la carica esplosiva della natura stesse compressa, allo stesso modo di una molla, dentro il bosco.
Connie si sente protetta lì dentro, forse perché avverte di essere più vicina alla propria femminilità, anche se non sarà sufficiente il primo impatto con la natura per liberarla. Gli impacci sessuali iniziali saranno comunque superati un po' alla volta mediante l'immersione nella realtà silvana: il ciclo di vita e di morte, il prolificare degli animali e la necessarietà del succedersi delle stagioni finisce per far sentire la giovane donna integrata nella vita del parco. Energie femminili al fosforo poco a poco riemergono dagli abissi in cui sono state occultate, e le ultime catene cadono durante la passeggiata liberatoria che Lady Chatterley compie nuda, sotto la pioggia: nel bosco, ancora una volta vengono in superficie lupi ululanti a reclamare il loro diritto alla vita notturna.
Emblematica è la scena d'amore del XII capitolo, dove compare il binomio classico della letteratura ambientata in epoca vittoriana: il mare e la foresta.

E sembrò che ella fosse come il mare, non altro che cupe onde che si elevavano e gonfiavano in un grande ondeggiamento, finché lentamente tutta la tenebra che era in lei si mise in moto e divenne un oceano che rotolava la sua massa oscura e silenziosa... e più intimamente la penetrava l'ignoto sensibile, e più lontano rotolavano le onde, lontano da lei, abbandonandola, finché, d'un tratto, in un dolce fremito convulso, il vivo di tutto il suo plasma fu toccato. Ella si seppe toccata; tutto fu consumato ed ella dissolta. Dissolta; non esisteva più ed era nata: donna.

Paradossalmente, il bosco di querce secolari, pur essendo il teatro di queste sensazioni (è lì, infatti, che Connie fa all'amore col guardiacaccia), non compare nel brano, mentre il mare - distesa tempestosa che evoca tumulti interiori - è nient’altro che un paesaggio interiore. Nella foresta che richiama il mare Connie si dissolve: nel luogo in cui tutto incessantemente si trasforma, in cui la vita nasce senza pudori dalla morte, anche la donna vittoriana muore per lasciare il posto a una donna cosciente della propria sessualità.
Una volta che il parco ha esaurito il suo ruolo iniziatico, i due amanti potranno andare a vivere nella società e sposarsi, e non è un caso che l'ultimo appuntamento fra Constance e il guardiacaccia non avvenga più a Wragby Hall. Del resto, come nella fiaba di Biancaneve, è difficile immaginare che una storia del genere possa continuare ad avere mordente al di fuori del bosco.

La foresta della sospensione: Sarah

La vicenda de La donna del tenente francese (10) si svolge nell'anno 1867. Charles Smithson, giovane inglese aristocratico e colto, che combatte con hobby scientifici un'esistenza alquanto noiosa, è promesso alla pallida e poco stimolante Ernestina, con cui fa lunghe passeggiate e vuote conversazioni. Quest'uomo finisce così per innamorarsi di un'altra, una donna sensuale, intraprendente, ribelle e capace di fare le proprie scelte senza chiedere il permesso a nessuno, ma soprattutto dotata di uno sguardo che possiede la dote del richiamo, tutte qualità che contrastano con l'immagine stereotipata della donna vittoriana. Fra l'altro, Sarah è la donna del tenente francese, da lui sedotta e abbandonata: la donna altra - per questo soprannominata la "puttana del tenente francese"- rispetto alla noiosa, pudica, obbediente, timida e sottomessa Ernestina. Non a caso, in una bella, ordinata e decorativa serra Charles chiede la mano a Ernestina, mentre le scogliere selvagge e i boschi altrettanto selvaggi del Dorset sono teatro del suo innamoramento per Sarah.

Anche in questo romanzo compare il binomio mare-foresta. La prima apparizione di Sarah a Charles è proprio su un molo battuto dal mare in tempesta, "lo sguardo puntato come un fucile verso un lontano orizzonte". Quando la donna si volta verso di lui, Charles rimane colpito dal suo volto:

Non era un viso grazioso come quello di Ernestina. Non era certamente un bel viso secondo i criteri estetici e i gusti di qualsiasi epoca. Ma era un viso indimenticabile, un viso tragico. Sgorgava dolore con la stessa purezza, naturalezza e inarrestabilità con cui sgorga l'acqua da una sorgente nei boschi. Non c'era artificio in esso, né ipocrisia, né isterismo, né maschera; soprattutto non c'era la minima traccia di pazzia. La pazzia era nel mare vuoto, nel vuoto orizzonte, nell'irragionevolezza di quel dolore; come se la sorgente fosse stata naturale in sé ma innaturale in quanto sgorgava da un deserto.

looking_up_yosemite.jpg (12067 byte)Di fronte alla falsità, agli isterismi e alle maschere di un’epoca che appare arida come un deserto, come una sorgente nei boschi si staglia la purezza del volto di Sarah e del suo autentico dolore. Eppure proprio quel dolore che sgorga da una donna in tempesta e selvaggia, stona con il contesto innaturale in cui è inserito.
Ben altra suggestione è quella del boscoso Undercliff, teatro delle passeggiate solitarie della donna del tenente francese. Tanto per cominciare, si tratta di un’ottimo posto di osservazione da cui è possibile scrutare il mare fino all'orizzonte, e dove ogni giorno Sarah alimenta la speranza di vedere la sagoma della nave che potrebbe riportarle il suo ufficiale. Ma al di là della visuale, per la "puttana" è consolante e protettivo quel luogo selvaggio che assomiglia tanto alla rabbia che le ribolle dentro: tutti i giorni vi fa un sonnellino, quella foresta è la sua casa, lì avverte la presenza di elementi che non la giudicano secondo nessuna morale, e mentre il mare evoca tempeste interiori, le accoglienti braccia della foresta, lontano dalla società civile, le accettano avvolgendole della loro luce.

La foresta è il luogo dove si nutrono l'anima e le passioni di Sarah, e non è un caso che la sua padrona le proibisca tassativamente di andarvi: per una signora quel luogo è considerato peccaminoso e sconveniente, proprio perché agli occhi di una rispettabile donna inglese dell'ottocento è il contatto con la propria istintualità il vero peccato mortale, la vera sconvenienza.
Più passa il tempo e più il paesaggio forestale si insinua come un germe anche nella coscienza dell’altro frequentatore dell’Undercliff, Charles, uomo vittoriano, formale, tutto di un pezzo, moralmente saldo. Dalla foresta Charles riceve ambigui messaggi di cui subisce il fascino: è la crisi di un'epoca a cui l'istinto di un essere umano sano di mente e di corpo non può che ribellarsi.

i suoni, gli odori, la selvatichezza assoluta della vegetazione e la sua rigogliosa fertilità lo spingevano con forza all'antiscienza.

L'Undercliff è davvero l'ombra della serra bella e ordinata, simbolo di un epoca in cui non sono ammessi misteri, in cui tutto è previsto, codificato, ordinato, moralmente catalogato e dove niente sfugge al grande tessitore della vita della società: la Morale.
Non c'è morale nell'Undercliff, ma solo natura selvaggia, necessità, strapiombi in cui l'uomo può morire dimenticato nell'indifferenza: passeggiando in mezzo a un bosco di enormi frassini, Charles si sentirà addirittura "piacevolmente rimpicciolito" di fronte a loro. Perché c'è qualcosa di più di un insieme di alberi secolari, in quei luoghi selvaggi: c'è l'arcano - forse lo stesso che attrae la disperata e ribelle Sarah nelle sue passeggiate quotidiane - l'energia, l'incoraggiamento alla ribellione che prende coraggio e si immedesima in quella apparente della natura, fino a confluirvi.
Non a caso è lì che si insinua il tarlo del dubbio in Charles, spingendolo all'"antiscienza", fino a quando la foresta, che fa da scenario alle effusioni di due amanti sorpresi per caso durante una passeggiata, assurge ai suoi occhi a simbolo di sano erotismo.

erano giovani amanti come i frassini erano vecchi alberi; naturalmente erotici come l'erba d'aprile che stavano calpestando.

Charles è dunque l'uomo che avverte la crisi della sua epoca. Le escursioni nella foresta sono iniziate per un hobbyViaggio del pellegrino.jpg (31300 byte) geologico, ma in realtà, poco a poco, il fascino intrigante racchiuso fra gli alberi si è depositato come una strana polverina dotata di poteri così magici da far vacillare le consuete sicurezze: è particolarmente emblematico, in proposito, un episodio riportato nel X capitolo. Dopo il primo incontro con Sarah nella foresta, Charles, turbato dal fascino torbido e inquietante della donna, scappa da lei per poi lasciarsi andare al dubbio: perché non le ho chiesto quale sentiero seguire? La attende allora per una trentina di secondi, sperando che lei lo segua:

Charles lo ignorava, ma in quei bravi secondi sospesi sopra
il mare in attesa, in quel luminoso silenzio della sera... si era
perduta l'intera epoca vittoriana
.

Per la cronaca, Sarah non lo raggiungerà, e Charles sarà costretto a scegliere da solo il sentiero da imboccare - guarda caso, il più ripido. La donna - ridotta dalla società vittoriana al ruolo di creatura indifesa e inconsapevole, di sposa tanto più desiderabile quanto maggiormente pudica, affettata e arrendevole - nell'immaginario dell'uomo inglese dell'ottocento diventa protagonista proprio in una foresta.
Nel germe del dubbio, nella sospensione, nell'attendere alle proprie spalle una donna che indichi qual’è la strada da prendere nel folto degli alberi - nell’abbandono a quella che Steinbeck avrebbe chiamato la "femminilità delle fronde" - l'epoca vittoriana evapora nel nulla.
Davvero deve esserci qualcosa di femminile, fra le fronde dei boschi, se la fecondità e la vita sono la massima espressione femminile, mentre al maschio rimangono - si fa per dire - il controllo e il dominio.

L’uomo che va contro la natura è solo una faccia della medaglia del potere: sull’altra faccia c’è l’uomo che va contro la donna, e la somma delle due facce dà per risultato un uomo che va contro sé stesso: come osserva il gesuita americano Faracy (11) , andare contro le risorse che sono all’origine della vita, così come opprimere le donne, non è altro che un modo per sopprimere il femminino - un complesso di principi radicati nell’esperienza femminile - che si nasconde nell’uomo. La fecondità della natura e quella della donna sono strettamente associate nella nostra coscienza, e mortificarle sotto il controllo del potere equivale alla soppressione dell’anima, di quella femminilità che ogni uomo occulta e proietta dove solo lui sa.
Ricongiungersi alla natura significa invece accettare aspetti che da tempo l’uomo ha scacciato da sé e che coincidono con l’immagine della donna meno facile da digerire a chi detiene il potere: la capacità di percepire in termini non solo razionali ma intuitivi e legati al sentimento, un legame stretto con i ritmi biologici, nonché un’istintività che può rendere incontrollabile e perciò simile alla natura disordinata e imprevedibile. Del resto la natura è sempre stata essenzialmente femmina, materna, fertile, capace di nutrirci ma anche di stupirci con le sue bizzarrie. Ed è noto che l’uomo dà spesso attributi infamanti - uno fra tutti, puttana - a ciò che del femminile gli sfugge.
Coppia regale.jpg (17453 byte)Proprio prostituta definì la natura uno dei padri della scienza moderna, Francis Bacon: nell’uomo egli vide la creatura centrale dell’Universo, perciò investita di tutti i diritti di sfruttamento e di dominio su ciò che le dava utilità. La nuova visione meccanicistica trovava nella natura un oggetto da esplorare e in cui fare ordine nel nome dei benefici umani; nient’altro che una puttana, quindi.
E’ così che la manipolazione della natura e la distruzione delle foreste è andata di pari passo con la dominazione della donna.
A scatenare questa alienazione, secondo Faracy, sarebbero state la riforma protestante e la rivoluzione scientifica del seicento. La natura umana decaduta e peccaminosa, tutta la natura soggiogata a Dio e al suo giudizio terribile, sommata ai tempi storici e alle esigenze della borghesia emergente, portarono a una visione utilitaristica del creato, su cui l’uomo potè sfogare la propria aggressività nel modo più classico che si conosca: schiavizzandolo.

C’è stato un tempo in cui l'uomo sentiva di essere parte integrante di un complesso di cui facevano parte fiumi, laghi, foreste, praterie e campi coltivati. Come ha spiegato Martin Heidegger (12) commentando il secondo libro della fisica di Aristotele, nell’antichità la nozione di natura si identificava non tanto con l’azione transitiva del "generare", quanto con quella riflessiva del "generarsi", principio intrinseco di movimento: l’uomo, in quanto dotato di tale principio, faceva parte della natura. Ne consegue che per Aristotele non era l’uomo a essere contrapposto alla realtà naturale (la physis), ma la realtà che egli produceva artificialmente nel tentativo di imitare la natura (la techne). Va da sé che la techne era subordinata alla physis, anche se non per questo assumeva un ruolo negativo: del resto, senza la prima non esisterebbero l’agricoltura, la medicina, l’educazione e tutto quel complesso di relazioni uomo-natura a cui diamo il nome di civiltà.
E’ a partire dalla rivoluzione scientifica del seicento, cioè con l'avvento della scienza moderna, che il concetto di natura si è modificato e il mondo esterno all'uomo è stato visto come l’espressione di un ordine oggettivo estraneo ai suoi fini e alle sue esigenze. La rivoluzione industriale del seicento fu emblematica di un atteggiamento di sfida alla tradizione: nel nome della razionalità e della scienza, le mistificazioni della Chiesa sulla natura furono affossate e l’uomo sentì di poter dominare le forze naturali come mai gli era successo prima. Da Cartesio in poi la conoscenza della natura ha cominciato a identificarsi con qualcosa che va oltre al fatto di "capire", e che sconfina nel "potere" di trasformare ogni cosa ai propri fini. La civiltà industriale ha fatto registrare la crescita ipertrofica del "potere" sul "capire", e accentuando questa distanza ha posto l'uomo in alternativa a una realtà naturale che da sempre è invece intimamente legata alla sua azione.

Quando Copernico prese la madre terra dal centro dell’Universo e la sostituì con il sole - l’immagine di Faracy è davvero efficace - fu un colpo ferale sia per la natura che per la donna.

Non è un caso che la "puttana" del tenente francese e la foresta dell’Undercliff rappresentino il binomio vincente su un’epoca che fu così convenzionale e autoritaria, da confinare la sessualità femminile nei bordelli e da bandirla nelle famiglie perbene.

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