La foresta e le ombre dell'eros

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La colpa era lì, in quelle malefiche luci elettriche, nello strepito diabolico delle macchine. Lì, nel mondo dell'avidità meccanica, del meccanismo avido, dell'avidità meccanizzata nel mondo scintillante di luci, che vomitava metallo incandescente e risonava dei rumori del traffico; lì era il male immenso, pronto a distruggere tutto ciò che gli si opponeva. Presto avrebbe distrutto il bosco, e le campanule non sarebbero fiorite più. Tutte le cose vulnerabili dovevano perire sotto lo scroscio e il colare del ferro.
(da "L’amante di Lady Chartterley", di D. H. Lawrence)

Connie avanzava come alla cieca. Dal bosco antico veniva verso di lei una malinconia che la leniva un poco e valeva più dell'aspra insensibilità del mondo esterno. Le piaceva tutto ciò che era interiore in quell'avanzo di foresta, la reticenza muta dei vecchi alberi. Sembrava che fossero una potenza di silenzio, e tuttavia avevano una presenza vitale. Anch'essi aspettavano: aspettavano ostinatamente, stoicamente, ed esalavano una potenza di silenzio. Forse non aspettavano che la fine: essere abbattuti, portati via, la fine della foresta, per essi la fine di tutte le cose! Ma forse il loro silenzio aristocratico e tenace, il loro silenzio di alberi tenaci, significava qualcosa di diverso.
(da "L’amante di Lady Chartterley", di D. H. Lawrence).

... come se l'oscurità fosse davvero l'elemento proprio delle nostre essenze, sebbene la luce sia più congeniale al fango che è in noi.
(da "Moby Dick", di H. Melville)

Charles lo ignorava, ma in quei brevi secondi sospesi sopra il mare in attesa, in quel luminoso silenzio della sera... si era perduta l'intera epoca vittoriana.
(da "La donna del tenente francese, di J. Fowles)

La foresta immaginata e quella vissuta

mt_whitney.jpg (16014 byte)Da sempre l’uomo vive i propri rapporti col bosco su un duplice binario, quello immaginario e quello dei rapporti concreti, questi ultimi fatti in buona parte di sfruttamento a fini economici. Non è vero, come a volte si sente dire in giro, che l’uomo oggi sente maggiormente il bosco a livello inconscio, che è preso da un "sentimento del bosco" che un tempo non esisteva. Anche i popoli antichi avevano il sentimento del bosco, ce l’avevano i Sumeri, come i Greci e i Romani; il fatto è che la ragion di stato ha quasi sempre scavalcato il sentimento.
L’epopea di Gilgamesh - la prima opera letteraria che ci sia pervenuta e che risale nella prima stesura al 2000 a. C. - parla proprio di un re che per raggiungere l’immortalità decide di andare ad abbattere i cedri delle foreste libanesi: sterminare la foresta equivale, nell’immaginario dell’eroe sumero, a porre fine alla vita che si perpetua in eterno, e in certo senso a compiere un’impresa degna dell’immortalità. Mentre l’immaginario produceva il mito di Gilgamesh, il popolo sumero si approvvigionava proprio nelle foreste del Libano del materiale da costruzione per i templi da innalzare agli dei: da un lato la foresta era presa a simbolo del divino, dall’altra veniva tagliata in omaggio agli dei.
In passato, anche i popoli che hanno abitato la nostra penisola ne hanno depredato i boschi, sebbene ciò non abbia impedito loro di metterci dentro simboli divini e proiezioni della loro immaginazione.
Di questa apparente schizofrenia si possono portare ad esempio gli antichi romani, da cui noi discendiamo. I romani trassero origine dalle selve - fu una creatura selvatica ad allattare Romolo e Remo - e agli albori della civiltà della Città Copy of Ofelia.jpg (17313 byte)Eterna era proprio nei boschi che potevano alloggiare impuniti i banditi, coloro che erano fuori dalla legge(1) . Poi i boschi ospitarono cerimonie sacre, fino a diventare templi, quindi i templi furono costruiti nelle foreste e infine ne uscirono a riprodurre, nelle città, foreste stilizzate. I romani tenevano in grande considerazione i boschi sacri e li difendevano con leggi severe, salvo poi distruggere gli altri per tutto l’impero, in modo da trarne legna con cui fare navi, con cui vincere battaglie, con cui conservare un impero e un’identità nata dal bosco. E dire che questa apparente contraddizione appartiene a un popolo che di senso pratico, dicono, ne avesse abbastanza. E infatti, mandarono ad alloggiare nelle foreste prima ciò che non si incastrava nella loro civiltà (i banditi), poi la legittimazione della loro civiltà da parte di entità superiori (le divinità), e infine i costruttori di navi per mantenere la civiltà stessa. Il popolo romano, assai pragmatico e cinico, quando invadeva una nazione si affrettava a depredare le sue foreste, col risultato di trarne non solo legname, ma anche altri preziosi vantaggi legati alla possibilità di assimilare meglio gli sconfitti: con le foreste sparivano le divinità pagane che vi alloggiavano, e con esse l’identità dei popoli che le adoravano. I nostri antenati che hanno regnato sul mondo per secoli, avevano capito molte cose delle foreste, e abbiamo visto come facevano: erano assai razionali, sapevano conciliare la spiritualità con l’economia, i riti con le battaglie navali e tiravano avanti per la loro strada, distruggendo foreste, allargando l’impero e diffondendo la romanità ai quattro angoli del mondo.
Riposo dalla fuga in egitto.jpg (23253 byte)Allo stesso modo degli antichi romani, anche la borghesia inglese che ha attraversato l’epoca vittoriana ha distrutto foreste per trarne combustibile con cui far funzionare le fabbriche. Del resto, se gli antichi romani si fossero limitati ad adorare gli dei nei templi immersi nel verde dei boschi, oggi di loro non esisterebbe traccia nei libri di storia, così come poche tracce resterebbero della maggiore potenza coloniale e industriale dell’ottocento.
Da sempre esistono civiltà che basano la loro economia sullo sfruttamento delle foreste, come da sempre esiste in ogni civiltà qualche anticorpo che a tale distruzione si oppone, più o meno inconsciamente. L’anima dei popoli si è specchiata nelle foreste, la loro civiltà le ha distrutte per sopravvivere e affermarsi. E tutto questo non è né bello, né brutto. E’ solamente storia, cioè qualcosa che si riferisce agli eventi umani e non necessariamente all’anima dei popoli (2).
La cosa, in realtà, non sembra più contraddittoria di quanto non lo sia il fatto che nell'uomo convivono aspetti legati alla sfera emotiva con altri legati alle esigenze pratiche. Lo stesso uomo che adora in un albero di una foresta il ricordo di un incontro amoroso, può cinicamente abbattere lo stesso albero per bruciarlo qualora si trovi sperduto nel bosco, senza riparo e al freddo: finché le esigenze primarie hanno avuto il sopravvento su quelle affettive e spirituali, il rapporto concreto uomo-bosco ha avuto connotazioni precise, legate allo sfruttamento intensivo per soddisfare esigenze pratiche, sebbene una sonda invisibile non abbia mai smesso, dalla foresta, di andare a impressionare l’immaginazione che si occulta in una stanza segreta della creatura pensante.
Anche dopo gli antichi romani, quindi, nelle altre parti della Terra la foresta ha continuato a essere massicciamente utilizzata e allo stesso tempo popolata di creature magiche e di simboli, testimoni di un bisogno ancestrale da parte dell’uomo di proiettarvi il proprio inconscio: vengono in mente i draghi del ciclo nibelungico e la strega di "Hansel e Grethel" (entrambe espressione della cultura popolare germanica), la foresta incantata del Tasso, le atmosfere fatate delle foreste di Shakespeare. Ma l’immagine della foresta richiama alla memoria soprattutto il caos da cui Zarathustra discende a generare "stelle danzanti", e poi ancora il luogo ostile in cui Buck, la mitica creatura del Richiamo della foresta, si ricongiunge alla sua vera natura. L’uomo ha davvero proiettato di tutto nei boschi, ma la principale suggestione appare quella della libertà degli istinti, come se la natura selvatica incoraggiasse a liberarsi dalle costrizioni della civiltà e degli schemi razionali.

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