Gli in-contri di Sollicciano
Gli incontri di quest’anno, all’interno di una attività pluriennale di collaborazione con i responsabili per le attività formative e culturali del carcere di Sollicciano, si sono concentrati sul tema della trasformazione e individuazione visto attraverso l’analisi di 4 films:
18 Febbraio 2005 | Chocolat: trasformazione come congiungimento di corpo anima e mente. |
8 Aprile 2005 | A beautiful mind: La malattia mentale come occasione di trasformazione |
6 Maggio 2005 | Rita Rita |
20 Maggio 2005 |
Billy Eliot: In entrambi i film il tema si sofferma sulle condizioni di svantaggio socio-culturale e la spinta all’elevazione di sé e all’individuazione attraverso la conoscenza e la fedeltà a se stessi. |
Dall’IN-CONTRO all’INDIVIDUAZIONE
Amicizia, Tolleranza, Convivenza, Libertà, Affettività, Dolore, Diversità, Fiducia, Trasformazione..... e ........ .....Individuazione.
I lunghi anni di
‘incontri’ con il gruppo di detenuti di Sollicciano ci hanno indotti a
riflettere su diversi aspetti di questa esperienza nel tentativo di comprendere
ciò che questi incontri hanno rappresentato per tutti noi, e nella ricerca delle
parole adatte a raccontarli.
Nel termine ‘in-contro’ convivono due opposti sensi: il senso comune
del ‘riunirsi’, dell'entrare in contatto ed in comunicazione, del porre fine
alla distanza che separa; ed il senso, meno palese ma altrettanto
inequivocabile, del ‘contro’, dell’ ‘opposto’, dell' ‘altro da sé’, che di
questa distanza è la radice e l'essenza.
Lo scopo paradossale dell' ‘in-contro’ è quello di ‘tenere insieme’ e di
salvaguardare la pluralità. Tenere insieme e mantenere, anzi curare, la
diversità, questo è l'atteggiamento alla base di ogni autentica possibilità di
relazione e di comunicazione individuale e sociale, che rispetti anche le
esigenze di un percorso creativo personale.
Anche nel carcere la realtà dell'in-contro risente della maggiore o minore
disponibilità e consapevolezza di ognuno, però il ‘trattino’ che separa/unisce
le due parti acquista qui la consistenza di limiti oggettivi e insormontabili:
il muro di cinta, le sbarre della cella, il tempo e le modalità obbligate degli
incontri.
Prendere atto della situazione per quella che è, vuol dire abbandonare ogni
sterile, per quanto ben intenzionato, tentativo di immedesimazione, di
annullamento della distanza e della differenza: significa accettare il dato di
fatto, immodificabile almeno nell'immediato, di due realtà separate. E' da
questo punto in poi che possiamo porci una domanda ‘autentica’: noi ‘fuori’ e
voi ‘dentro’, in questo tempo che ci è dato, abbiamo qualcosa di cui parlare
‘che riguardi entrambi’, e che ci aiuti nella nostra ricerca di senso e di
trasformazione?
Così abbiamo pensato che il cinema, con il suo impatto emotivo, potesse fornire
l’occasione per la costituzione di uno spazio, immaginario e comune, di
esperienze e di scambio, una sorta di luogo d'incontro ‘neutrale’, di ‘terra
di tutti’: perché il cinema, che è arte della narrazione per immagini, ha una
straordinaria capacità di evocare, per empatia simbolica, sia quelle preziose
esperienze individuali conservate nel ricordo, sia quegli ‘orizzonti
esistenziali inediti e potenziali’ che, superando la parzialità e la finitezza
della realtà presente, si aprono a prospettive ulteriori.
E’ così che il cinema rende, e ha reso anche a noi, possibile la creazione di
un punto d'incontro, di un luogo accomunante che tutti possono abitare, perché
esso, pur situandosi al di là della realtà particolare di ciascuno, accoglie
una trama di significati simbolici che a tutti può parlare.
I film che abbiamo visto in questi anni (Gli anni spezzati, C'era una
volta in America, Smoke, The Truman show, Full Monty,
My name is Joe, Grido di libertà,
Passaggio in India, East is East, Mississippi Masala, Un
incendio visto da lontano, Forrest Gump, L'ottavo giorno,
Buon compleanno Mr. Grape, Un amore speciale, Il mio grosso
grasso matrimonio greco, Chocolat, A beautiful Mind, Rita Rita, Billy
Elliot ) sono stati il ‘luogo’ dell'incontro, ed il veicolo attraverso il
quale ognuno ha potuto, almeno in parte, trascendere psicologicamente ed
emotivamente i confini personali dietro ai quali l'Io di ciascuno tende ad
isolarsi quando teme quell’esperienza potenzialmente tragica che è il contatto
con l’ ‘altro da sé’. E questo trascendimento ha ottenuto l'effetto di aprire
almeno una falla temporale, forse solo per lo spazio e il tempo sufficienti ad
una stretta di mano, probabilmente un'inezia sul piano oggettivo, ma che per noi
ha rappresentato un grande valore interiore.
E’ stato perciò possibile parlare dei temi proposti ( la tolleranza,
l'amicizia, la tradizione, la libertà, le questioni interculturali, la
multietnicità, la fiducia, il tradimento, la convivenza, il dolore,
l'affettività, la diversità, ecc.... fino alla trasformazione e
all’individuazione) in maniera meno astratta, potremmo dire appunto più umana,
come di qualcosa che riguarda tutti, ‘che ci riguarda’, nonostante e
oltre le nostre differenze. E quando l'in-contro avviene, anche se solo per
pochi momenti, e noi siamo certi di esserci incontrati, si
genera un'apertura attraverso la quale si fa strada la concreta
percezione delle risorse vitali e trasformative contenute nell'interiorità e
nell'immaginario di ognuno di noi, risorse personali e potenziali che
nessuna condizione oggettiva, per quanto gravosa, può cancellare del
tutto.
Per questo l'incontro diventa un'occasione di comunicazione e di scambio che
potrebbe portare alla coscienza di tutti ‘inedite prospettive esistenziali’.
Alcune delle tematiche trattate sono state più coinvolgenti: la libertà, il
dolore, la fiducia, e il loro intreccio lungo il processo di trasformazione e di
individuazione personale.
Affermare che la "libertà" è prima di tutto una condizione psicologica suona
oggi come una frase fatta, un banale luogo comune che, soprattutto, ben poco può
aiutare chi ha perduto ‘oggettivamente’, fisicamente, la propria libertà.
Eppure, che la mia libertà dipenda anzitutto dalla percezione che io ho di essa,
è dimostrato inesorabilmente dal fatto, incontestabile e desolante, che io mi
accorgo del suo ‘valore’ solo quando essa mi viene tolta, quando la perdo. Solo
allora, paradossalmente, affollano la mia mente tutte le possibilità che avrei
potuto e che adesso vorrei porre in atto, se potessi, se fossi nuovamente
libero. Il fatto è che quando sono libero, quando possiedo la mia libertà, ne ho
una percezione vaga e scontata, poco vitale.
Purtroppo, il ricordo della perduta libertà, come quello degli anni ormai
trascorsi, ha spesso solo il sapore amaro del rimpianto, di ciò che avrei potuto
fare ed essere, piuttosto che la consistenza del dolore per gli errori
commessi, oppure di un onesto ripensamento critico del passato.
Ciò dimostra che, normalmente, siamo portati ad eludere la nostra libertà e le
possibilità che essa ci offre; viviamo nel migliore dei casi libertà parziali,
mozzate e ci muoviamo comunque solo all'interno delle anguste mura della nostra
ristretta visuale, della gabbia concettuale ed emotiva che noi stessi ci siamo
costruiti e che vigiliamo, timorosi di ogni conoscenza che possa destabilizzare
la rigidità della nostra identità cosciente, e aprirci a una visione diversa di
noi stessi e dei nostri lati più oscuri: l’altro è fuori ma anche dentro di noi,
e con quell’ombra noi spesso non vogliamo confrontarci.
La libertà nasce dunque prima in noi stessi. Sarà banale ma è vero, ed uno
stato d'animo vitale e una nuova consapevolezza si fanno strada solo
attraverso un percorso trasformativo doloroso ed audace
che non è possibile codificare astrattamente, ma che può però essere intuito
attraverso la narrazione personale, o la produzione artistica, di chi ne ha
fatto l'esperienza.
Un’altra tendenza ormai consolidata nella società occidentale è il ‘rifiuto del
dolore’: le risorse della scienza ci consentono di mettere a tacere più
o meno durevolmente i sintomi e le sofferenze che ci affliggono, fin dal
loro insorgere. Ma il sintomo e il dolore vengono così privati della loro
funzione di ‘segnali’: ridotti a semplici disfunzioni ‘meccaniche’, essi non
dischiudono più alcun senso, non indicano più niente, sono inutili
interferenze che ostacolano il normale decorso delle nostre esistenze.
Noi
pensiamo invece che un rifiuto così drastico del dolore e il
conseguente, massiccio ricorso ad
anestetici di ogni genere provochino, tra le altre cose, la perdita della
‘funzione simbolica’ , cioè di quella qualità dell’anima che consente di
percepire l’esistenza individuale in relazione al ‘mistero della Vita’, e di
stabilire un nesso significativo tra l’essere e il cosmo.
La divisione che si è inevitabilmente prodotta nell’infanzia tra la nostra parte
pulsionale, quella affettiva e quella mentale e spirituale può venire
ricomposta, attraverso la mediazione riflessiva della coscienza e la ricchezza
operativa e simbolica della psiche, o anima, al fine di rimodellare una
personalità in-divisa. L’individuazione, come abbiamo visto insieme, rappresenta
proprio questo: è il coronamento di un percorso le cui tappe sono rappresentate
da tutti quei passaggi dolorosi, quelle crisi potenzialmente feconde che
attraversano il farsi della nostra esperienza esistenziale.
Perciò, dal nostro punto di vista, il disagio esistenziale e i sintomi che lo
indicano rappresentano una preziosa occasione di ascolto delle voci interiori ed
esteriori, che ci interpellano e spingono a considerare la vita come un
‘percorso’ tutt'altro che meccanico e scontato. Abbiamo visto attraverso le
esperienze esistenziali di cui abbiamo avuto occasione di parlare negli incontri
e con la visione e la lettura dei film in programma, come i ‘sintomi’ siano
capaci di tradursi in ‘simboli’, ricchi di possibilità trasformative per la
psiche individuale e, conseguentemente, anche per quella collettiva.
Noi, infatti, siamo un
colloquio complesso e profondo tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, tra la
coscienza e l’inconscio, tra l’individuo e la collettività e solo la lotta
cosciente con il male e col dolore ci permette di conoscere e confrontarci con
parti di noi, sia individuali che collettive, che sono state negate, tradite e
rimosse, e che forse solo attraverso la ferita dei ‘sintomi’ riescono ancora ad
esprimersi.
Anche la fiducia, risorsa esistenziale ‘umana, troppa umana’ - e sorella
povera di istanze ben più altolocate, quali la fede, l'utopia, la speranza
- è oggi un atteggiamento ormai in disuso, quasi una reliquia
sentimentale , una ingenuità da neofiti, insomma una favola per bambini. In
effetti, a fronte di un sano e adulto pragmatismo, dobbiamo prendere atto che
gli investimenti sulla fiducia sono destinati al fallimento; la matematica non
è un'opinione: fiducia=fiducia tradita. Non è più possibile fidarsi di niente
e di nessuno, questo è quanto, le statistiche non mentono. Caduti i ‘valori’ ,
di qualsiasi genere fossero, e imparata la dura lezione di vita, non resta che
difendersi legando il quotidiano al tangibile, al concreto, all' ‘oggettivo’:
vale a dire garanzie, garanzie, garanzie....
Questo eccesso di s-fìducia, che concentra tutto sull'autoconservazione, ci costringe però a vivere in piccole e indistruttibili roccaforti individuali che tengono fuori gli ‘altri’ e chiudono lo sguardo sul futuro. Di fatto, in generale , l'umanità occidentale vive una realtà ‘profondamente scissa’, schiacciata fra un presente totalmente disilluso, ‘ridotto all'osso’, quando e se possibile, del soddisfacimento difensivo dei propri bisogni e voglie materiali ed egoistici, ed un futuro privo di speranza che tutt’al più vagheggia lontani scenari astratti, più o meno fideisti, sia religiosi che laico-scientifici. In altre parole, da un lato il presente, limitato però a ciò che tocco con mano e che perciò non mi può tradire, dall'altro un futuro sempre più angoscioso e insicuro, sempre di là da venire, sul quale posso ancora tentare di illudermi nascondendomi dietro a quei privilegi che forse non mi tradiranno, e con i quali posso solo apaticamente distrarmi. In questo modo si elude l'esistenza, siamo fuori dalla vita, perché neghiamo il legame tra le generazioni, il nesso tra libertà e responsabilità, e la volontà umana cosciente di tenere legati, nel presente, il passato e il futuro.
Ed è questa, come abbiamo detto, la fiducia che viene tradita. Questo è il suo valore, perché solo quando e se ci esponiamo, noi possiamo raggiungere il piano della realtà, di una realtà che integri la dimensione individuale, in tutta la sua ricchezza e complessità, e quella collettiva. Perché avere fiducia significa aprirsi concretamente "qui ed ora", all'altro e al futuro. Certo, ci esponiamo alla possibilità, anzi all’indubbia probabilità di essere traditi, feriti, ma almeno non siamo in fuga dalla vita, non siamo più dei rifugiati esistenziali. Se vivere significa poter legare e condividere nel presente dei progetti per il futuro, porsi con fiducia rappresenta forse il tentativo più autentico di sanare la scissione fra astratto e concreto, fra ‘me’ e l’ ‘altro da me’.
Carlo Alberto Cicali – psicologo
Anita Buccianti – councelor
Dario Squilloni - psicologo