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albero_1.jpg (29154 byte)Per Jung è invece indispensabile per la salute della psiche recuperare proprio il rapporto dialogico fra le due parti della personalità. Ritrovare la comunicazione significa rinnovare il processo evolutivo della funzione sentimento rimossa nell’inconscio, e coincide, nell’ambito della società occidentale contemporanea, con il percorso del processo d’individuazione, che vede l’Io dialogare con l’inconscio attraverso il linguaggio simbolico-rituale e ritirare le proiezioni fino a raggiungere il proprio Sé, la vera identità individuale.
La ricerca junghiana inizia dall’"infanzia" della coscienza soggettiva, ancora confusa con la base pulsionale che, attraverso un lungo percorso di differenziazione, genera un Io strutturato e autonomo il quale, se non denega le proprie radici inconsce può intraprendere un confronto comunicativo con se stesso che lo conduce al Sé e alla visione dell’"altro da sé". L’empirismo di Jung arriva fino qui, e il grande psicologo svizzero ha sempre sottolineato che il suo compito e il suo metodo non intendevano né potevano procedere oltre, e sconfinare sul terreno metafisico. La sua visione dell’uomo non si spinge oltre la constatazione di un dualismo intrinseco, motore principale della dinamica psichica, che non va rifiutato ma assunto e integrato fino in fondo, senza saltare fasi evolutive o zone della psiche. Per Jung il compito dell’uomo consiste nel trovare se stesso, la propria vera identità, per poter essere "testimone" di un divenire universale che altrimenti sarebbe privo di senso.

Come abbiamo visto, Vyseslavcev concorda con Jung sul fatto che alla base della vera identità individuale si trovi una dualità, una tensione di opposti che la costituisce: "Ho un solo cuore e esso si divide in due; io sono unico ed io trovo in me un doppio ." In assenza di polarità non può esistere una individualità, poiché identità significa libertà di scelta; se non c’è niente da scegliere, se la via è univoca, allora non vi è libertà né identità individuale. Per Vyseslavcev la libertà totalmente incondizionata è appunto la nostra somiglianza con Dio; è un dato di fatto, indimostrabile perché evidente e senza fondamento, in quanto non possiamo trovare niente dietro o prima della libertà, facoltà che proviene direttamente da Dio. D’altra parte questa libertà è indissociabile dalla tensione degli opposti che lacera tragicamente l’interiorità di ciascuno, tensione irrisolvibile sul piano meramente intellettuale, poiché la troviamo appunto nel luogo più profondo, al "limite" stesso dell’abisso interiore, dove i parametri razionali si dilatano e si confondono nell’infinito: il luogo, appunto, del cuore. Nel cuore troviamo la percezione evidente, passiva, della nostra libertà. Tale evidenza "... non è solo intellettuale, ma anche contemplazione etica, estetica, religiosa. (...) Il "sentimento" nella contemplazione dei valori (etici, estetici), nell’accettazione di ciò che è "sacro", possiede la sua evidenza, la sua "logica"."

Albero_Ermetico.jpg (30331 byte)È per questo che si deve "stare con la mente nel cuore", e non limitarsi alla sola meditazione intellettuale, poiché l’antinomia del cuore, causa ed effetto della libertà, può essere superata solo da una "conoscenza" ben più profonda di quella intellettuale, conoscenza che troviamo solo nel cuore, sede della nostra "somiglianza con Dio", la libertà.

Per Viseslavcev: "L’antinomia dell’impossibilità e della possibilità di peccare (...) trova la sua soluzione solo per mezzo della libertà; la soluzione può essere pensata per mezzo del concetto di libertà, e può essere realizzata per mezzo della forza della stessa libertà. La libertà può tutto: essa può divenire in sé antinomica, e può superare l’antinomia. Ogni scissione dell’uomo, ogni scissione del suo cuore, che costituiscono la sua contraddizione e la sua tragicità, provengono dalla libertà e si superano con la libertà." L’uomo può scegliere di allontanarsi da Dio perché è libero di farlo, e questa è la sua stessa divinità, la sua somiglianza con Dio; ma può andare ancora oltre e "... scegliere la libertà creativa e rifiutare la libertà distruttiva", può scegliere di ritornare al padre.

Vediamo qui con chiarezza la grande differenza fra il percorso di Viseslavcev, culminante nella scelta che scaturisce dalla libertà contenuta nel cuore, e le soluzioni "ragionevoli" elaborate dalla psicoanalisi freudiana e da quella corrente dei cristianesimo che, come detto in precedenza, "rifugge" dal male. La differenza è la stessa che troviamo nei diversi atteggiamenti dei due fratelli nella parabola del figliol prodigo: solo il minore dei due (che esige dal padre la sua spettanza e la dilapida nel mondo), vive fino in fondo l’esperienza degli opposti, dentro e fuori di sé. Mentre l’altro fratello non si differenzia, non si allontana dal padre, lui acquista, con la coscienza, la propria vera identità, e nell’istante in cui sceglie di superare la propria libertà e si dichiara servo, la sua unicità viene pienamente riconosciuta e accolta nel luogo di origine. Nelle parole dell’apostolo ciò viene descritto come una vera "imitazione di Cristo": "E il padre a lui: Figlio, tu stai sempre con me e tutto il mio è tuo, ma era giusto banchettare e far festa, poiché questo tuo fratello era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato" (Lc 15, 11-31).

Albero_Alchemico.jpg (27384 byte)Solo attraverso il percorso e la passione del Cristo possiamo risorgere nell’identità redenta del cuore che "... esprime se stesso, trova il suo fine non nell’unisono, ma nell’armonia delle corde tese e differenziate". L’incarnazione, il percorso temporale, dev’essere consumato fino in fondo, sulla via dell’individuazione non si possono saltare fasi, non si può "rifuggire" dalla carne e dall’umanità, dall’eros, perché altrimenti non troviamo la nostra vera identità, data dall’accettazione consapevole della nostra tragica condizione esistenziale.

La situazione di profonda scissione in cui versa attualmente la società occidentale, deprivata del linguaggio simbolico-rituale che permetteva e agevolava questo tipo di esperienza, impedisce l’interazione creativa degli opposti, i quali, di conseguenza, agiscono unilateralmente e distruttivamente. Per questo vediamo, da un lato uno "spirito" occidentale sempre più sradicato e inaridito da un eccesso di astrazione, dall’altro un "corpo" scatenato e dilagante, vuoto e senz’anima, ridotto alla superficie di sé. A questo riguardo, la riscoperta dell’universo del simbolo e la riattivazione della funzione simbolica o "funzione religiosa della psiche", operata in occidente soprattutto dalla ricerca di Jung, è da considerarsi di importanza fondamentale: attraverso la comunicazione e l’elaborazione simbolica il soggetto può esperire completamente l’anelito dell’eros che lo caratterizza in quanto essere transeunte, e ricongiungersi consapevolmente con la propria scintilla d’eternità, l’identità nascosta nel cuore, il . In ambito religioso, l’importanza dell’opera junghiana e del cristianesimo ortodosso, è direttamente collegata alla mancanza di adesione all’incarnazione del cattolicesimo, che troppo spesso ha privilegiato orientamenti "non-incarnati", adeguandosi alla tendenza all’astrazione della società occidentale, processo culminato, in ambito ecclesiastico, con l’avvento delle chiese protestanti.

Per definire la vera identità individuale, sia in Jung che in Viseslavcec troviamo il termine . Il , per ambedue gli autori, è il centro gravitazionale della personalità, è il fulcro che riesce a "tenere insieme" la tensione degli opposti. Dovendo poi dare un nome alla "forza", che innesca e promuove l’intero processo, all’"energia" che spinge l’individuo verso il proprio centro nascosto e con la quale il attrae gli opposti, vediamo che entrambi ricorrono più o meno esplicitamente ai termini "eros", a anche "amore". Non potendo tentare, in questa sede, neppure di affacciarsi alla problematica sconfinata delle definizioni che sono state date sia dell’eros che dell’amore, vogliamo però extrapolare alcuni aspetti che, a nostro parere, precisano le consonanze e le differenze fra Jung e Vyseslavcev e, più in generale, fra la prospettiva psicologica junghiana e la concezione antropologica del Cristianesimo. In questo senso possiamo affermare, con sufficiente sicurezza, che il percorso evolutivo di differenziazione della coscienza dal caos pulsionale fino all’integrazione nel Sé, si svolge prevalentemente all’insegna dell’eros; dove con eros si intende definire in generale la tensione desiderante del soggetto, l’anelito irresistibile a congiungersi con l’oggetto amato. Desiderio "erotico" dell’oggetto che, indipendentemente si rapporti ad un obbiettivo immanente, concreto, o trascendente (nel senso platonico), ci pare dominato essenzialmente da un carattere che potremmo definire "acquisitivo". Il soggetto, in questa fase di individuazione di sé, desidera possedere o contemplare, in ogni caso però non può che partire dal proprio anelito di coinvolgersi con l’oggetto, non può desiderare per sé il rapporto con l’oggetto amato. È questa una fase fondamentale per l’evoluzione della psiche individuale e collettiva che, come abbiamo detto, attualmente in occidente è stata del tutto disattesa: al posto di un individuo che attraverso l’eros acquisitivo trova veramente se stesso solo nel rapporto con l’altro da sé, assistiamo allo strapotere di un ego fagocitante e mai placato che tutto divora e distrugge.

Un rinnovato dialogo degli opposti, promosso invece da una autentica tensione erotica, rigenera e agevola il processo di trasformazione della libido che da affettività primaria si evolve fino a diventare "sentimento" consapevole e maturo; il ritiro delle proiezioni reintegrano la personalità individuale che trova il proprio e, allo stesso tempo, può finalmente vedere la realtà che lo circonda, "l’altro da Sé", fino a quel momento sepolta sotto strati di proiezioni soggettive.

Ed è proprio qui, nel momento in cui la salita dell’eros, attraverso il processo d’individuazione junghiano, trova il suo compimento e il suo culmine, che l’individuo trova anche il limite di sé. Anzi, potremmo dire che la vera identità nascosta nel cuore si ottiene solo nel momento in cui il soggetto, come il figliol prodigo, consumato totalmente il proprio eros, diventa cosciente del limite dell’eros, un eros che lo riconduce sì fino a sé e sulla soglia dell’altro da sé, ma che qui esaurisce il suo compito poiché, come afferma la voce nel sogno citato all’inizio "un cuore senza mani non può erigersi al di sopra della propria malattia", un cuore solo erotico non può spingersi oltre la visione.

Ultima_cena.jpg (38598 byte)In questo momento cruciale, se l’individuo ha veramente raggiunto la pienezza di se stesso e vuole entrare nella realtà dell’altro da sé (che finalmente può vedere), l’eros deve tacere, deve aprirsi, attraverso la crocifissione, all’irruzione dall’alto, dell’energia donativa dell’amore, che dischiude l’orizzonte sconfinato e senza tempo dell’agape, il dono di sé. Potremmo dire che se, fino a questo momento, il ritrovato rapporto dialogico fra gli opposti ha consentito al soggetto di ritrovare se stesso, il suo vero , l’ingresso nel mondo dell’agape, che rappresenta l’assoluta originalità del Cristianesimo, apre al Sé individuale la realtà sconfinata dell’"Altro da sé" e la possibilità universale della "relazione" con l’Altro. Una prospettiva completamente rovesciata quella dell’agape che, superando i limiti del pur fecondo rapporto erotico (caratterizzato comunque da una tensione acquisitiva), si apre all’altro, invertendo la direzione di 180°, non più con intenti di assimilazione o di scambio, ma nella perfetta semplicità dell’incondizionato dono di sé.

Un nuovo orizzonte di valori, infinito e tutto da scoprire (e da creare), si dispiega all’individuo consapevole di sé che inizia a percorrere la strada in discesa della relazione con l’Altro. Una strada che può essere percorsa solo "con la mente nel cuore", dove la facoltà più importante, l’atteggiamento più adeguato, non è più la visione, apice ed estasi dell’anelito dell’eros, ma l’ascolto, l’accoglienza silenziosa e partecipe dell’individuo che, placato l’anelito di Sé, finalmente tace, ascolta la Parola scendere liberamente nel suo cuore, e risponde all’Altro articolando un nuovo linguaggio che, nella prospettiva agapica della relazione, appare come il naturale successore del linguaggio simbolico: la preghiera, la caritas, il servizio.

La migliore risposta alla voce del sogno, Carlo Alberto Cicali la ebbe da un colloquio con madre Teresa di Calcutta che gli disse: "I miei poveri hanno bisogno di essere amati col cuore e serviti con le mani".


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