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Fort-da

Pier Aldo Rovatti

Una premessa dovuta.

Un filosofo certo sensibile verso la psicoanalisi ma mai al punto di inclinare a identificazioni, talora anche critico e in ogni caso distaccato in giusta misura, ha affermato con convinzione teoretica che siamo nell’epoca della psicoanalisi, lo si voglia o no.

Troviamo questa affermazione, insieme ad un rapido, ma utilissimo, esame dei motivi e degli effetti di essa, in uno scritto, per dir così, laterale di Jacques Derrida, nel quale viene estratta e commentata una "piccola frase"di Michel Foucault.

Nel 1961, nella sua Storia della follia, Foucault incrocia Freud e, pur stigmatizzandone il genio maligno, con resipiscenza cartesiana, invita ad essere giusti con chi aveva comunque dato una voce alla follia proprio nel momento in cui la rinchiudeva in un discorso, appunto la psicoanalisi, dello stesso ordine di quello psichiatrico, e che poi, come sappiamo, finirà per diffondersi nel senso comune e nel dire quotidiano.

Derrida coglie al volo questo margine, e inoltre ci fa vedere come simile apertura, quasi inapparente, non si rimargini affatto quando Foucault, nella Volontà di sapere del 1976. lancia il suo progetto, esplicitamente anti-freudiano, di una "storia della sessualità".

Se anche uno come Foucault riconosce che bisogna essere giusti con Freud, a fortiori uno come Derrida ha il "dovere"di farsi questa domanda e di girarcela: la risposta pone una questione di "epocalità"e riguarda tutti, ciascuno a seconda dei propri interessi e competenze, e magari cominciando a considerare l’intoppo nel quale si arena Foucault di fronte alla coppia "piacere"e "potere".

Derrida osserva: ma non è proprio verso queste sabbie che ci sospinge Freud nel sorprendente disordine del suo Al di là del principio di piacere?

Basterebbe, tuttavia, che derrida ci fornisse la cosapevolezza di essere "dentro"un’epoca dalla quale, con l’occhio volto agli effetti fastidiosi, se pur questo ha da essere il nostro primo sguardo, non possiamo pretendere di liberarci con un semplice scongiuro: la cosa ci riguarda, anche se ci sembra di avere tutti gli strumenti intellettuali per smontarla e dire che non ci riguarda affatto.

Derrida si limita qui a insinuare che se lavorassimo solo di spugna non sapremmo mai perché e come la psicoanalisi ci riguarda; e quindi a suggerire che, se riuscissimo a considerarci dentro il problema, non solo potremmo sperare di afferrare per la coda il genio maligno di Freud ma anche di usufruire dell’altra parte di genialità.

Ma derrida va, per conto suo, più avanti e non si accontenta, da filosofo, di una constatazione fattuale: per questa ragione, con la quale adesso cercherò di entrare in dialogo, penso che gli spetti il posto di una premessa.

Bisognerà tener presenti almeno altri due testi, oltre al luogo che ho appena ricordato. Mi riferisco al seminario su Al di là del principio di piacere (pubblicato nel 1980 nel volume La carte postale) e dalle recentissime riflessioni a proposito del fantasma e dell’Unheimliche freudiano. Il che ci suggerisce un’osservazione preliminare: che questo peculiare motivo dell’importanza di Freud per le condizioni entro le quali oggi si dà pensiero (un "pensiero dell’oggi") non è una ricorrenza episodica quanto piuttosto un motivo di fondo nel lavoro di Derrida (in realtà, fin da La scrittura e la differenza). Si direbbe che, per lui, l’epocalità della psicoanalisi dipende soprattutto dalle rapide pagine di Dar Unheimliche (Il Perturbante, 1918) e da quelle così discusse e discutibili di Al di là del principio di piacere (1920), o meglio dal gioco incrociato di questi due testi freudiani in cui, alla fine, qualcosa si ripete (si dà nel tempo o si dona al tempo) in un movimento dal passato al futuro, nella cui logica siamo presi ma che non sembra addomesticabile dentro i limiti di alcuna conciliante ragionevolezza. Ed è poi la nostra idea di presente a risultare la meno domestica, e anzi Freud ci aiuterebbe (se di aiuto si tratta) a vederla come quella che indica la condizione di maggior spaesamento (e proprio perciò Derrida intende gettare un ponte fra Freud e Heidegger).

Normalmente ci attacchiamo a questa idea di presente per rassicurarci, e ne facciamo discendere una idea di storia (e dunque anche di passato) altrettanto conciliante.

Evitiamo così - si direbbe - la follia della distanza da noi stessi e ci consolidiamo nella normalità della presenza, nella rassicurazione di essere presso di noi, nella prossimità, o almeno in una stretta vicinanza. Si vede bene come da qui possano alimentarsi tutti i pensieri che credono di certificarsi nell’essere presso di se della coscienza. è, allora, come se Freud ci comunicasse che questo certificato è venuto o sta venendo a scadenza. L’acume filosofico di Derrida consiste nel riconoscere la particolare piega di questo annuncio poco gradevole, che già Nietzsche, con tono alto, aveva diffuso.

Con Freud, infatti, il tono apocalittico si spegne in una modulazione a dir poco ambigua. Quel certificato continua ad essere tenuto per buono e nessuno di noi potrebbe tranquillamente andare in giro senza di esso: Freud può essere capito (e non pochi l’hanno inteso così) come colui che ci provvede di una nuova e più valida assicurazione contro la follia e a difesa delle dighe del nostro beneamati "io". Cosa che è difficile contestare del tutto Ma è poi anche incontestabile che Freud ci alleghi gli argomenti per i quali quello stesso certificato non vale nulla, dato che è falso e non spendibile.

Infine, però, Freud è, a detta di Derrida, colui che identifica il luogo e la posizione grazie ai quali la verità e la falsità della nostra certificazione di prossimità stanno insieme, in un gioco di presenza e assenza, di dentro e fuori: così facendo, disegna la condizione della contemporaneità o per lo meno ce la suggerisce.

Con quale discorso o scrittura?

Derrida è particolarmente interessato a questa domanda, poiché sa che gli effetti, buoni o cattivi, della psicoanalisi possono dipendere completamente da essa.

Se il gioco o gli effetti spaesanti non si ripercuotono sulle parole e sulla forma discorsiva che esse assumono, la psicoanalisi finisce col ripiegarsi del tutto nelle braccia del suo genio maligno, e ne otteniamo una teoria come tante altre, e magari con la presunzione di essere migliore e la sfacciataggine di ritenersi esonerata dal darne conto ("hai fatto l’analisi?"No. "e allora non puoi parlare").

Ecco perché Derrida è così attento all’abissalità del gioco in questione o, se vogliamo, alla scena della scrittura in Freud. Perché ne va, infine, non solo della credibilità di Freud (è infatti proprio grazie a questa scena che la psicoanalisi attesta se stessa), ma anche della nostra incidenza nell’epoca che essa segnerebbe. Noi dunque apparterremmo a quest’epoca ma non nel modo di un’appartenenza qualunque: al contrario, nel modo in cui ciò che normalmente riteniamo il nostro proprio viene messo in questione.

Se volessimo essere giusti con freud, così sembra suggerire Derrida, dovremmo accorgerci che la psicoanalisi ci è propria e al tempo medesimo estranea, poiché siamo interni al suo discorso ma al tempo stesso ne siamo fuori:

Nel citato seminario a un certo punto Derrida scrive: "La scrittura di un fort\da è un fort\da". Al che dovremmo allora aggiungere che appartenere all’epoca di questo fort\da, in cui si condensa il pensiero di Freud, significa essere noi stessi in una posizione da fort\da rispetto a Freud e alla psicoanalisi, presa come identità culturale.

Un gioco molto istruttivo

è il cosiddetto gioco del rocchetto sul quale Freud si sofferma nel secondo paragrafo di Al di là del principio di piacere. Freud prega il lettore di considerare insieme a lui "il significato del primo giuoco che un bambino di un anno e mezzo si era inventato da sé".

Il nipotino di Freud fa sparire e ricomparire un piccolo oggetto accompagnando il gesto ripetitivo con un "o-o-o"e con "a-a-a". Freud interpreta, e si tratta di un’inter-pretazione pesante che mette in causa la ripetizione, l’assenza e la morte. Quel piccino si sarebbe già costruita una macchina per arginare l’angoscia dell’assenza (della madre) e del nulla (il suo proprio nulla).

Osserviamola questa macchina elementare dirà poi Jacques Lacan, perché ci permette un’ulteriore scoperta: che essa funziona grazie a quei suoni opposti (fort-da) i quali delineano la potente macchina simbolica del linguaggio nel momento, per così dire, in cui la accendiamo o vi accediamo: e in quel momento stesso usciamo da un isolamento che di per sé ci consegnerebbe a un’esistenza solo fantomatica.

Nientemeno

Anche derrida attribuisce una formidabile importanza alla scena del gioco del rocchetto, tuttavia non asseconda l’invito di Freud (e poi di Lacan) a staccarsi dalla scena e a speculare sul suo significato. Il nientemeno, che mi sono permesso, potrebbe funzionare come l’avviso della corsa in avanti (o verso il fondo) cui la psicoanalisi sembra predisposta ogni volta che cede alla seduzione di potere e sapere scorgere una realtà vera dietro le apparenze.

Potrebbe essere questo il genio maligno di Freud, una specie di malattia dell’interpretazione. Gilles Deleuze direbbe che lì c’è solo un bambino che gioca e che il riuscire a dirlo costa una battaglia filosofica.

Ma quale sarebbe la genialità di un fabbricante di specchi e di specchietti? Servono gli specchi? E inoltre: Freud è semplicemente questo?

L’importanza che Derrida attribuisce al gioco del rocchetto non corrisponda alla catena di significati che essa mette in moto (e che non possiamo negare che ci riguardino da vicino): esse si manifesta piuttosto nello scarto tra il significato avvistato e indicato da Freud e quello che accade a Freud che osserva la scena, nella scena stessa cui Freud partecipa e in cui noi stessi prendiamo un posto.

Il fort-da sfugge, diciamo così, al controllo (ad ogni controllo, innanzi tutto a quello di Freud) e non si lascia trattare come un oggetto corrispondente a una speculazione. Al contrario: non solo non si identifica con un qualche correlato di una manovra speculare, ma agisce piuttosto come ciò che induce la manovra e ne comanda le deviazioni. Freud è preso nel suo gioco proprio nel momento in cui sta cercando, anche arditamente, anche in un modo incerto, una strada speculativa alla psicoanalisi.

La quale si caratterizza nella sua genialità benigna quando mostra di sapere di trovarsi in una situazione nella quale ogni sapere, compreso quello psicoanalitico, non può che essere sotto scacco: o, più precisamente, in un’oscillazione intenibile, impossibile da governare. Quando supponiamo di governare il gioco, non c’è più gioco. Non c’è più piacere.

Vogliamo spingerci al di là, ma poi dobbiamo constatare che solo al di qua, o semplicemente qui, per esempio nel testo di Freud, sta accadendo qualcosa. Anche Lacan, nonostante il supposto teoricismo della sua mossa filosofica, sa perfettamente che la psicoanalisi è un ritorno alla superficie dei significanti, non uno sprofondamento nel mondo sotterraneo dei significati.

Tuttavia il qui cui siamo richiamati si rivela un terreno ondulato sul quale certo poggiamo i piedi ma lo facciamo come se stessimo sospesi tra un’entrata e un’uscita.

Il gioco del rocchetto ci dà così molte istruzioni. Ci istruisce, per esempio, su uno slittamento che nella psicoanalisi è diventato paradigmatico: l’accordare un supplemento di verità al bambino, alla scena infantile, al carattere veritativo della regressione. Perché il gioco del rocchetto ha da essere più vero di un’analoga esperienza adulta?

Ecco il bivio, un incrocio tra i due geni di Freud: una strada sancisce la verità della strada infantile, un’altra apre l’interpretazione sul perché di questo ripiegamento cui di continuo, in tante forme, il nostro pensiero ricorre. Ipotizziamo che l’esempio del rocchetto ci istruisca soprattutto sull’importanza del gioco: che il fort-da riusciamo a descriverlo solo se riusciamo a mantenerci nell’esperienza ludica che esso apre ma da cui -anche- non può che essere aperto; che la psicoanalisi sia infine essa stessa questo gioco e la sua paradossale consapevolezza; che, in questo modo, la psicoanalisi ci istruisca sul linguaggio e sulla scrittura come un gioco di dentro e di fuori.

Ebbene, riusciamo a farci un’idea di gioco senza ricorrere o ripiegarci su una scena infantile, oppure su una scena in cui l’infanzia sia in qualche modo di casa?

Freud risponde di no. Ma è la modalità di questo no ad interessarci, perché ci aiuta a intendere il nostro. Questo no è una sorta di retro-effetto, di rinculo: piuttosto che un ritorno, agisce come una ripetizione di qualcosa che infine non ci importa se sia veramente accaduto o meno, perché ha la presa e la consistenza di un fantasma del passato con cui abbiamo da regolare i nostri conti se vogliamo mantenerci nell’oscillazione tra chiusura (il semplice ritorno) e apertura (il piacere della ripetizione).

Allora anche il gioco del rocchetto può avere per noi (come ha sicuramente per Freud nella scena di scrittura del suo testo) un effetto di spaesamento: effetto opposto a quello di rimpatrio rassicurante nella casa dell’infanzia ("per farvi vedere che ho ragione adesso vi racconto l’esperienza di un bambino. . . . . ").

Proviamo allora a leggere il secondo paragrafo di Al di là del principio di piacere come se fosse un’esempio che Freud ci propone dell’esperienza dell’Unheimliche.

Tutto è in realtà perturbante in questa scenetta osservata da fuori dallo sguardo amorevole di un nonno rivolto al nipotino che gioca, mentre tutto si svolge dentro questo gioco stesso (Freud, l’intera sua esperienza, questo testo che sta scrivendo con difficoltà), ingovernabile e incerto. Ed è perturbante lo scambio stesso che Freud tenta tra l’esperienza ludica del bambino e la speculazione scientifica sulla vita e la morte, il piacere e il potere. Scambio che per un verso non può che fallire ma, che, d’altra parte produce uno dei testi più significativi della psicoanalisi.

Una porta che apre e chiude

Che cosa ha allora da dire la psicoanalisi alla filosofia? La domanda, posta così, è già di per sé abbastanza insolita. Siamo stati infatti abituati a mettere in relazione psicoanalisi e filosofia chiedendoci se e in che misura sia lecito parlare di una filosofia di Freud e magari dei debiti della psicoanalisi verso la filosofia, delle sue arretratezza filosofiche, della sua sensibilità a questa o a quella forma di pensiero. Ci si è chiesti, anche di recente, se Freud abbia diritto o no ad un capitolo nella storia della filosofia contemporanea. E quando poi è venuta la stagione di Lacan, che mostrava di aver fatto suoi Platone, Hegel e anche Heidegger, si è riconosciuto -anche da parte avversa- lo sforzo meritevole di aver colmato un gap filosofico. Insomma ci si è piuttosto chiesti (e gli analisti hanno continuato a chiederlo) che cosa aveva da dare la filosofia alla psicoanalisi.

La nostra domanda è appunto meno consueta, anche se ha lavorato sotterraneamente in quegli stessi filosofi che si sono dichiarati lontani, estranei, o solo alquanto sordi (questo mi pare, ad esempio, il caso di Heidegger). E anche quando la domanda è stata resa esplicita, a una sua seria presa in carico ha fatto ostacolo la questione della pratica analitica, considerata inaccessibile allo sguardo filosofico e, poi, spesso con il medesimo gesto, promossa a questione decisiva.

Le osservazioni che ho introdotto in queste pagine a commento della risposta di Derrida (che mi sembra, tra quelle che mi sono note, la più convincente e produttiva) possono portare un duplice esito. In primo luogo, alla piena legittimazione della domanda stessa: non solo essa è lecita, ma deve essere posta a tutto vantaggio del lavoro filosofico che si trova oggi nella necessità di rimuovere certi sbarramenti al proprio interno. Riconoscere di essere nell’epoca della psicoanalisi significa anche, per la filosofia, scambiare alcuni dei propri problemi cruciali con un altro discorso che mostra di possedere, per lo meno, la capacità di irrompere nel modo della domanda filosofica.

Il secondo esito riguarda il merito del linguaggio filosofico. Non mi riferisco all’immissione nel discorso della filosofia di una terminologia psicoanalitica: questo fenomeno (che ha proceduto di pari passo con analoghe immissioni in altre discipline, e in parallelo ad una invadenza, è il caso di dire, nel linguaggio comune) è sotto gli occhi, e possiamo al massimo apprezzare il carattere sintomatico poiché spesso i risultati sono discutibili, e talora deleteri. Mi riferisco al nodo pensiero-immagine che mi pare diventato oggi una delle grandi scommesse della filosofia.

Per descrivere quel terreno ondulato e quella oscillazione, di cui prima o fatto parola, la filosofia cerca un pensiero adeguato, che non trova nella propria tradizione: ha inoltre consapevolezza che la questione dell’adeguazione ci mette a rigore fuori strada, perché é semmai in gioco uno scarto paradossale. Si tratta infatti di mantenere lo scarto e insieme di tentare di colmarlo con le parole; si tratta -meglio- di trovare parole che descrivano questa distanza senza annullarla. Si ricorre così ad una metaforica, o più semplicemente all’uso di immagini. Ma poi si deve subito dichiarare che qui le metafore non sono metafore in senso stretto, e che nessuna idea filosofica di immagine si presta a funzionare nel senso che viene richiesto.

Ne la deriva retorica ne i tentativi di una declinazione ontologica corrispondono all’esigenza di questa domanda filosofica, e forse non ne permettono neanche una formulazione convincente. Che bisogno ha Derrida di richiamarsi all’Unheimliche o al fantasma? Egli sa perfettamente che non si tratta di supplenti filosofici, così come si rende conto che sta introducendo, in questo modo, un margine di non-dicibile, o almeno di non-dicibile filosoficamente. Credo che il punto stia nell’introdurre un’immagine (o un gruppo di immagini) la quale, già di per se, mette in opera uno scarto rispetto al modo abituale di considerare questa nozione.

Come si vede, siamo parecchio lontani dalla nozione ovvia di psicoanalisi e anche dall’idea critica molto meno ovvia, secondo cui Freud avrebbe terminato un processo e dato un ordine di discorso (un sapere\ potere del e sul soggetto che scava in se stesso) a una rete di pratiche già diffuse da secoli. Potremmo dire invece che Freud ha modificato lo stile dei discorsi, immettendovi un effetto di straniamento che ci permette la visione del doppio vincolo grazie al quale siamo attaccati alle nostre parole. Il funzionamento del fort-da, come oggetto e insieme soggetto della scena della scrittura (ma soggetto e oggetto sono termini già inadeguati), potrebbe essere l’esempio paradigmatico dell’abissalità o (come direbbe Maurice Merleau-Ponty) della verticalità dell’immagine. Immagine perturbante e fantasmatica (come appunto ci possono indicare Freud e Lacan), che si ripete, si rilancia raddoppiandosi in un gioco in cui entrano in gioco il piacere e il desiderio. Ma anche immagine doppia, ambivalente, positiva e negativa, distanziante e tuttavia sempre rimpatriante nella prossimità.

Nicolas Abram ha sottolineato il paradosso delle parole psicoanalitiche (parole angolate, come le chiama Derrida nel suo commento) nelle quali la non-presenza (considerata in Freud come la condizione stessa della riflessività) si fa, appunto paradossalmente, presenza a sé. Un’estraneità e una distanza che abitano le parole stesse: ma forse la questione non può essere affidata solo a questa difficoltà , perché le medesime parole -se vogliamo essere giusti con Freud- oscillano tra tale distanza e una famigliare prossimità, anzi sono le parole di questa oscillazione, nella quale sia l’assenza sia la presenza si trasformano al punto che non possiamo più sostenere di essere soltanto dentro o soltanto fuori.

Nel secondo dei suoi seminari Lacan ha insistito sull’immagine della porta: una macchina di apertura e chiusura che da il battito al nostro linguaggio e alla nostra stessa soggettività. In quegli anni, Lacan pensava ad un modello cibernetico; più tardi chiamerà in causa una sua personale variazione del modello topologico. Derrida, che riflette intorno a Freud dopo Lacan, non crede più all’esigenza di un ancoraggio sul terreno scientifico, e quando egli stesso riprende l’immagine della porta, per dare conto del funzionamento e degli effetto del fort-da, preferisce figurarsi una cerniera, affidandosi all’orizzonte polisenso che il termine charnière ha nella lingua francese. Tuttavia l’epoca della psicoanalisi, nel suo doppio genio, non sembra poter tradursi né in una più complessa modellizzazione scientifica della soggettività, ne in una più aperta disseminazione semantica delle parole, cosa che d’altronde, tanto Lacan quanto Derrida sanno benissimo. è infatti in gioco un’operatività dell’immagine sulle parole che non solo rimette radicalmente in questione l’idea di soggetto ma anche di tutte le abitudini del nostro modo di pensare.

Derrida ha, secondo me, il grande merito di confessare con tutta franchezza che il lascito della psicoanalisi -da questo punto di vista- ci pone problemi che stiamo solo cominciando ad affrontare, non ultima la questione stessa di cosa sia un lascito (di cosa significhi appartenere a un’epoca e avere un presente). Freud e la psicoanalisi, nella loro doppiezza, suggeriscono la scena, o una scena, in cui collocare questi problemi; ma poi ci dicono anche qualche cosa di importante sulle parole e sulle immagini, sulle parole-immagine, con cui avremo da fare per non tradirla o cancellarla nel momento stesso in cui l’abbiamo individuata.

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