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Il Vertice e l’abisso

Claudio Risè

L'essere umano fa una grande fatica a rimanere sulla terra.
La sua psiche, e la sua immaginazione, sono costantemente impegnate nell'andare al di là: al di sopra, o di sotto, di quella superficie sulla quale si svolge la sua vita.
La spinta della verticalità non lascia tregua al suo inconscio, e da lì irrompe in continuazione nella coscienza. L'uomo é incalzato, tutta la vita, dalla contraddittorie forze dell'alto e del basso.
Come nell'immagine di George Ribemont Dessaignes (in Ecce homo):

Accese una sigaretta
Il fumo salì verso il cielo
mentre la cenere cadde ai piedi dell'inferno.

Siamo sempre lì, braccati tra queste due direzioni.
Che rimandano, tuttavia, (mi sembra opportuno ricordarlo), in continuazione l'una all'altra. Nella psiche umana, quando si tende a salire, é perché da qualche parte si teme/sperimenta una discesa.
Questo movimento ha a che fare, naturalmente, col vissuto personale di pesantezza-leggerezza. Salire é un tentativo, spesso inconscio, di sfuggire alla pesantezza, la cui attrazione tuttavia si rinvigorisce, man mano che si approfondisce l'abisso sotto di noi. Scendere é invece un riconoscere e venire a patti, a volte eccessivo, con la nostra pesantezza, nella fantasia inconscia di arrivare ai livelli più bassi di sprofondamento, quelli che, per la loro collocazione infera, ci mettano al riparo da ulteriori cadute.
Tuttavia i due movimenti, nella psiche umana, sono compresenti, non sono separabili. Se qualcosa dentro di noi sale, qualcos'altro si prepara alla caduta, e viceversa.
Come scrive Leonardo nei suoi Quaderni:

"la leggerezza nasce dalla pesantezza. ..E si distruggono l'una con l'altra nel medesimo istante, nella comune vendetta della propria morte. Questa infatti ne é la prova: la leggerezza é creata solo in relazione alla pesantezza, e la pesantezza si manifesta prolungandosi nella leggerezza."

Gaston Bachelard si rifiuta di approfondire sul piano scientifico "quest'oscuro brano", limitandosi a collocarlo tra Aristotele e Galileo; e preferisce notare, a proposito di Leonardo, che "la scienza del precursore é ancora una scienza sognata."
Poi, tuttavia, Bachelard continua l'intuizione leonardesca:

"Il nucleo della nostra pesantezza o la natura .. della nostra leggerezza si formano in una sorta di nebulosa psichica. Sentiamo di diventare pesanti o leggeri nella "vendetta"delle determinazioni contrarie. Colti dalla vertigine, sentiamo che avremmo potuto salire."

Continua Bachelard:

"Mille impressioni fanno variare il nostro "peso psichico", che é veramente un "peso immaginario". Potendo addentrarci in uno studio minuzioso delle nostre esperienze oniriche, forse potremmo educarci a combattere la nostra gravosità, a guarire delle nostre pesantezze, e una pedagogia della gravità accompagnerebbe una psicologia della pesantezza fisica."

Ma é poi necessario "guarire delle nostre pesantezze"? Qui Bachelard, che prima correttamente, sulla scorta di Leonardo, aveva ben legato insieme i due cavalli, dell'ascesa e della caduta, sembra improvvisamente prediligerne uno, e cacciare l'altro. mossa frequente in questo campo, della psicologia della verticalità, eppure assai grave.
Perché la pesantezza, con la sua capacità di tenerci ben poggiati al suolo, alla situazione in cui siamo, ci é altrettanto preziosa della leggerezza, che ci consente il movimento, l'immaginazione del nuovo, la visione.
Ho voluto ricordare queste osservazioni di Gaston Bachelard, nella sua qualità di fenomenologo dell'immagine psichica, perché ci aiuta ad evitare un rischio, forse, possibile in una lettura troppo affrettata di questo Quaderno di Eranos dedicato a "Il vertice e l'abisso".
Il pericolo é quello di vedere ascesa e discesa come momenti contrapposti, magari antitetici, comunque per certi versi autonomi l'uno dall'altro, piuttosto che come due facce della stessa esperienza psicologica , la verticalità, nella quale, inesorabilmente, l'una richiama l'altra.
Il rischio non é dappoco : esso apre al contemplatore, o sperimentatore, di una di queste due linee di movimento la possibilità di "uscire dal tetto nel mondo"(che per ognuno é innanzitutto la propria testa), o di sprofondare nei propri abissi, perdendo   ( o non riuscendo mai ad ottenere), un saldo rapporto col piano della superficie della terra, in cui si svolge la quotidianità della nostra vita.
La mia preoccupazione, naturalmente , é legata alla mia storia personale, e alla mia esperienza terapeutica.

Impossibile, ad esempio, nell'interpretazione di un sogno, -almeno per me- evitare di vedere la superficie della terra anche come una rappresentazione del piano della realtà quotidiana, dalla quale il sognatore si sta più o meno discostando nelle sue avventure lungo la verticalità. Un piano di realtà, tuttavia, da cui deve necessariamente anche allontanarsi, per non rimanervi schiacciato, per dare profondità, respiro, alla propria vita.
L'allontanamento dalla dimensione orizzontale, la sua espansione nel senso della verticalità, é un fatto creativo, letteralmente , nel senso che crea, apre, un nuovo spazio, indispensabile alla sopravvivenza psichica dell'uomo .
Da questo punto di vista l'immagine forse più eloquente offerta da questo Quaderno é la narrazione, da parte dell'etnologo Dominique Zahan, dei diversi miti di creazione africani che raccontano di come si sia prodotta la dimensione verticale.

Come dunque sia nato : il vertice, e l'abisso.
Secondo questi miti:

all'inizio della storia umana il cielo stava immediatamente sopra la terra, stringendola in un abbraccio che soffocava , o comunque rendeva difficile la vita dell'uomo, e della terra stessa. Furono (secondo alcuni di questi miti), le donne, col loro alzare i pestelli nello schiacciare i semi , a ferire/infastidire ripetutamente la volta del cielo, che alla fine si allontanò dalla terra, creando ciò che noi chiamiamo "lo spazio celeste".

Nel pensiero cosmogonico africano "la contiguità in illo tempore"di Cielo e Terra é una costante, e rappresenta una fonte di angoscia per l'essere umano. Essa si traduce in un'assenza di differenziazione pericolosa e inquietante.
"L'africano non apprezza la vita paradisiaca al nostro stesso modo.", osserva Zahan.
Viceversa :"l'allontanamento da Dio, la separazione del Cielo e della Terra, l'instaurazione dell'Alto e del Basso, della salita e della discesa, costituiscono i fondamenti cosmologici della religione africana."
Così per il fulmine, la cui permanenza costante sulla terra, ai tempi della non differenziazione Cielo-Terra, era fonte di gravi problemi per gli uomini, per via dei danni che esso, generalmente visto come un terribile animale, (diverso nella varie culture), procurava. Per questo il Dio Mboom lo rimandò in cielo. Ma anche ciò rappresentava un problema per gli uomini, che erano ora privati dell'elemento che dava origine al fuoco, essenziale per creare il fuoco domestico. Allora Mboom rimandò il fulmine sulla terra, ma occasionalmente, per colpire soprattutto la palma rafia, che fornisce agli uomini il fuoco e il materiale per accendere il loro focolare.
Insomma: "il fulmine era inumano nello spazio continuo, perché l'uomo può tentare di padroneggiare solo l'intermittente, e il discontinuo. Così oggi, con riti appositi, egli riesce a dominare la pioggia e il fulmine."
La visione africana della verticalità, nella sua grande semplicità, mi sembra assai utile nell'affrontare il nostro tema.

"preso tra Cielo e terra senza uno spazio che li separi, l'essere umano non può esercitare le sue attività....L'ascesa del cielo costituisce la condizione indispensabile della conquista dei nutrimenti terrestri, l'ascesa di Dio sollecita la sua ricerca da parte degli uomini e annuncia l'avvento dell'homo religiosus."

La dimensione verticale é istituita da una distanza, quella tra la Terra e il Cielo, che da una parte é indispensabile alla sopravvivenza umana, dall'altra stabilisce una nostalgia tra uomini e dei, che spinge ad un nuovo incontro tra loro. E' questo desiderio, o nostalgia, che fa sì che , nella mitologia africana, gli dei scendano, di tanto in tanto negli uomini che si rendono recettivi alla loro venuta, che accettino di essere "il cavallo del Dio". Il vegetale illustra il carattere creativo della verticalità, e la sua indispensabilità per l'esistenza umana. Necessario per l'alimentazione dell'uomo, e (con le diverse componenti, dalle foglie alle radici), per le sua difesa dalle malattie, il vegetale é fatto per crescere sia verso l'alto che verso il basso. Simile all'uomo per la sua posizione verticale, per la corrispondenza tra le varie parti (le radici alle membra, il tronco é comune, i rami-foglie alla testa), esso costituisce anche uno degli anelli della metempsicosi dell'anima umana. "L'albero é un essere umano immobilizzato..; divenuto albero, questi opera una sorta di pre-ancoraggio alla terra che lo sosterrà nella sua forma animale."Inoltre, l'albero trasmette discretamente quest'insegnamento:

"senza un radicamento profondo é inutile pretendere di salire molto in alto."

E insieme, proprio perché radicato e , dunque in grado di salire, l'albero é tramite tra cielo e terra, e , in quanto albero cosmico, axis mundi.
L'interpretazione africana della verticalità ci porta, mi pare, molto vicino al cuore del problema che essa pone alla psiche umana, e cioè : come essere profondi senza perdere l'equilibrio?

Muoversi lungo la dimensione verticale infatti, richiede un accorto sistema di pesi e contrappesi, (come l'albero con chioma e radici), per non perdere, né dal lato degli spazi celesti, né dal lato dell'abisso, il contatto con "la superficie", (che rappresenta gran parte del piano di realtà) .
E' molto interessante da questo punto di vista la tipologia africana, ben esposta da Zahan, dei Capi politici, come contrapposti ai Signori della terra.

I Capi politici sono scesi originariamente dal cielo, comparendo sulla terra dalla parte dei piedi. I Signori della terra , capostipiti degli agricoltori, sono usciti dalle viscere della terra, e dalla parte della testa. Questa opposta posizione nella comparsa sulla terra dei due tipi umani, dunque alla loro nascita, la dice lunga sull'attenzione africana all'equilibrio tra le due direzioni.
I Capi avranno il potere, che tuttavia si accompagna a uno status di "nati morti": la nascita podalica é infatti considerata in Africa, come in molte culture tradizionali, "anomala", di cattivo augurio, e in un certi senso "una non nascita". In alcune culture il bambino nato dai piedi veniva subito ucciso, perché potesse continuare il ciclo delle esistenze in quanto non era veramente nato. E' da questa convinzione, tra l'altro, che nasce l'usanza dell'Africa nera dell'uccisione rituale dei Re: che non é , come dice Zahan, né una pratica selvaggia , né un assassinio, ma "un rimettere a posto le cose". "Come ogni bambino nato coi piedi in avanti, il Re, al termine di una situazione effimera, veniva rimesso nella posizione che conviene a un uomo situato sull'altra riva dell'esistenza."

Ma perché questo sfavore verso il nascere dai piedi? Perché:

"la vita in società, come la vita in questo mondo, é un fermarsi, una sorta di alt, che ogni uomo compie nel corso del suo lungo viaggio. Presentarsi per i piedi alla nascita significa il rifiuto di questo mondo e della società dei genitori."

I Capi, discesi dal cielo, questo alt non vogliono compierlo.
Dal punto di vista psicologico potremmo parlare di una posizione grandiosa, con tendenza euforico-maniacale, che impedisce un vero contatto con la vita quotidiana, e le sue relazioni.
Questa intuizione della mitologia africana é molto interessante , alla luce dell'osservazione clinica. In effetti, le persone legate alla dimensione verticale, celeste, sembrano spesso come di passaggio sulla terra. Il Petit Prince di Saint Exupery é un'illustrazione perfetta (come ha colto Marie Louise Von Franz nel suo libro sull'Eterno Fanciullo), di questa posizione psicologica.
La passione verticale, per l'alto, é spesso espressione di uno sfondo patologico maniaco-depressivo. L'individuo vorrebbe le altezze, e quando può le raggiunge attraverso vari tipi di inflazione, ma l'abisso della depressione si spalanca sotto di lui, pronto ad accoglierlo quando la spinta inflazionante si esaurisce.
A quest'atteggiamento dei nati per i piedi si contrappone quello degli agricoltori, che escono con la testa dalla terra , per poi rimettersi in piedi. Così come cade con la testa sulla stessa terra la maggior parte degli esseri umani.
Tutti costoro, nascendo si fermano, accettano l'alt, si prendono la responsabilità della loro condizione umana.
Così l'agricoltore é il vivo per eccellenza, il nato vivo. Signore della terra, egli é anche signore delle sementi. E la sua dimestichezza con sementi e piante, gli consente di curare il vaiolo, da cui invece é affetto il Capo, il Re disceso dal cielo.
Le pustole del vaiolo sul volto del Capo sono le tracce terrestri e umane delle stelle della volta celeste, da cui il capo proviene.
Come a dire che la "luminosa celestialità", una volta sulla terra diventa una malattia pustolosa, da cui solo la dimestichezza con la terra può curare.

Le stelle-pustole sul volto del Capo disceso dai cieli mi consentono ora di essere ancora più esplicito, rispetto al tema, e rispetto al libro.
Nel mito africano infatti il Capo che viene dalle stelle é un nato -morto, ammalato. E il Signore della Terra proviene , é vero, dalle viscere dalle profondità terrestri, ma adesso é qui, e dentro non torna.
A ben vedere dunque nella vita umana non c'é né vertice, né abisso, se non come un prius, qualcosa che esisteva prima della vita e che consegna all'esistenza dell'uomo certe particolarità, e vocazioni. Ma cieli, e inferi, ognuno nella rispettiva posizione e funzione, devono stare lontani dalla vita umana, con la quale sono inconciliabili. Sono il luogo del prima, e del dopo, ma non del durante la vita, se non come reminiscenza e destino.
Vertice e abisso, entrambi compresenti come sfondo del prima e del dopo della vita umana, "si distruggono"- come diceva Leonardo parlando della leggerezza e della pesantezza, "nella comune vendetta della propria morte."La quale morte segna, d'altra parte il momento della nascita dell'uomo , e dell'inizio della vita.
Il desiderio di possedere vertice e abisso come esperienza totale corrisponde a quel "desiderio di potenza"di cui parla Jean Brun nel primo saggio di questo libro. Questa spinta é per solito compensatoria di una mancata o insufficiente presenza nella dimensione orizzontale. E' perché non ci sentiamo sufficientemente sulla terra, che vogliamo andare nei cieli, o negli abissi. E' per sfuggire alle prove cui ci sottopone la realtà che cerchiamo uscite grandiose, oltre di essa.
E tuttavia non penso si possano ridurre le tensioni verticistiche, o gli scivolamenti abissali, alle sole , per quanto importanti, vicende della biografia personale.

Da junghiano, e da osservatore empirico della psiche come lo stesso Jung si dichiarava, non posso tacere che proprio lo spazio della verticalità é popolato da forze, non individuali, ma collettive, che ritroviamo uguali a sé stesse, (seppur diversamente presentate) nei secoli e nelle culture, e che rimandano, per la loro comprensione psicologica, all'immagine junghiana del archetipi dell'inconscio collettivo.
Il movimento lungo la verticalità comincia (a volte, ma non sempre) da soli, e prosegue poi spesso sospinto, o addirittura come posseduto, da forze che consciamente ignoriamo, ma da cui il nostro inconscio sembra trarre la necessaria, e , a volte, rovinosa, energia per fare i giganteschi balzi richiesti da queste escursioni.
C'é una tensione solare, apollinea, luminosa nella spinta verso l'ascesa, di cui occorre essere ben consapevoli, per non venirne bruciati. Così come c'é una forza plutonico-saturnina nei movimenti di discesa, verso la quale occorre sviluppare un dialogo consapevole per non venirne imprigionati in una situazione di pietrificazione minerale.
Così come devo confessare che non mi convince del tutto l'interpretazione di Miller, che separa nettamente la discesa ad inferos, tutta interiore, da quella ad infernum, riferibile ad abissi più collettivi e persistenti, della singola vita umana, ( se non addirittura eterni).

La mia impressione é che tra l'abisso individuale, e gli abissi archetipici dell'inconscio collettivo ci sia almeno una situazione di contiguità . Che sfocia , oppure no, in una situazione di con/fusione , a seconda della robustezza dell'io del soggetto, e della sua disponibilità a confrontarsi, senza per questo confondersi, con contenuti ed energie tanto suggestive, quanto soverchianti.
Una descrizione moderna di forze archetipiche evocate dalla dinamica ascensionale é quella fornita dall'occultista tedesco Rudolf Steiner, e dalla corrente filosofico-religiosa da lui fondata, l'antroposofia, quando interpretano la storia umana, soprattutto contemporanea, come segnata dalla lotte tra due potenze contrapposte e compresenti nel mondo, Lucifero, e Arimane. Lucifero é il demone, o angelo caduto, della nostra cultura ebraico-cristiana. Steiner lo vede come una forza tendenzialmente ascensionale, che trascina l'uomo verso lo sviluppo di una conoscenza solare, ed é animato da intenzioni universalizzanti e di affratellamento. Erano luciferiche le forze collettive che hanno sostenuto le rivoluzioni borghesi, e la spinta universalizzante dei movimenti socialisti. Il rischio di cui Lucifero é portatore, secondo Steiner, é quello, tipico delle spinte ascensionali, di un eccessivo allontanamento dalla terra e dal corpo.
Nella medicina antroposofica Lucifero é il portatore di patologie "escarnanti", che agiscono cioè nel senso di un trasferimento dell'energia al di fuori del corpo, dalle infiammazioni , all'isteria, alle forme maniacali, all'anoressia.
Alla forza luciferica si contrappone quella di un'Entità, noi diremmo un archetipo, ben tratteggiato nella mitologia iraniana: Ahriman, Arimane. Ahriman é un demone del sottosuolo, che si oppone nella mitologia iraniana ai disegni del Dio creatore, Azdura Mahzda.

Mentre la spinta del creatore é quella di dare la vita, Ahriman, entità straordinariamente intelligente, calcolatrice, analitica, spinge verso la morte, l'arresto, la pietrificazione, la sclerosi.
In modo assai sorprendente Steiner, decenni prima dell'inizio dell'informatica, vedeva la silice ( la materia prima dell'industria dei calcolatori), tra gli strumenti principali dell'affermazione del potere di Ahriman nel nostro tempo .
Un potere che si sarebbe realizzato attraverso una profonda rivoluzione delle comunicazioni tra gli uomini, che sarebbe avvenuta nella direzione di una sempre maggiore precisione, automazione e spersonalizzazione. Lo sviluppo della tecnica, il trasferimento alle macchine di ambiti sempre più vasti, prima riservati alla psiche e al corpo umano, avrebbero contrassegnato l'era di Ahriman , la nostra. Il ferro, i minerali, e i materiali di sintesi avrebbero avuto sempre più spazio nella vita umana. Tutto ciò avrebbe portato a un progressivo raffreddamento, a una sorta di pietrificazione dell'uomo, con diminuzione delle sue capacità affettive e poetiche.

Per la medicina antroposofica, le patologie arimaniche sono le diverse forme di sclerosi, di indurimento, i tumori, la scomparsa delle reazioni infiammatorie, l'ossessività, l'atteggiamento unilateralmente analitico. La comprensione delle forze archetipiche presenti dietro alla dinamica verticale equilibra, mi pare, il nostro scenario, e ridà senso alla dimensione orizzontale, di cui, nel percorso tra vertice e abisso, poco si parla.  Si capisce allora perché , nel Parsifal, la prova più difficile che, il cugino di Artù, Galvano , deve sostenere per sconfiggere Klingsor e il suo Chastel Marveil, (castello stregato, ma quindi anche meraviglioso), é quella del "lit marveil", il letto meraviglioso, immagine e prova della dimensione orizzontale. Su di esso il campione si deve finalmente fermare, stendere. Su di esso dovrà reggere, (senza fuggire per le vette del Montsalvatsch, sede del Graal, e corrispondenti burroni), il confronto con la rotazione sul centro del lit marveil, con l'arcere e le sue frecce, e con l'animale.
Prima della conquista del Graal, prima dell'ultima salita al Monte della Salvezza, (che, di nuovo, é poi la salvezza del Re malato, del pio, ma putrescente Amfortas), é necessario che Galvano (sorta di doppio adulto e mondano di Parsifal), si confronti insomma con la condizione dell' individuo umano, che é quella che é. Egli deve accettare di girare in tondo, attorno al centro, al Sé di ognuno (che non si può mutare e attorno al quale dobbiamo giriamo, tutta la vita). Accettare di fronteggiare l'Eros armato di frecce, e la pulsione cui si cerca appunto di sfuggire nei viaggi lungo la verticalità.
Anche l'accorto sciamano ci accompagna sì sopra e sotto la superficie terrestre, ma col nostro prezioso animale, pegno indispensabile per tornare alla condizione cui apparteniamo, a cui proprio qualcosa, perduto nell'aria o nel sottosuolo, ci impediva di aderire a pieno titolo.
Dunque la bella immagine del minatore secondo Novalis (riferita nel saggio di Jean Brun):

"E' il signore della Terra,
colui che sonda i suoi abissi
e che , di tutte le miserie,
trova oblio nel suo seno."...
"la conosce intimamente,
per lei brucia d'ardore,
come per una fidanzata.",

mi tocca poeticamente, ma mi lascia anche assai perplesso. Più che Signore della terra, che é invece colui che dalla terra esce, (come nella mitologia africana), con la testa, per non tornarvi che da morto, quest'uomo che "dimentica le miserie"della vita di superficie nelle profondità della terra, con la quale si fidanza, mi pare un "abisso - dipendente", ansioso di cancellare, con le mute e fredde magnificenze del sottosuolo, le grane e le passioni di sangue e carne della superficie terrestre.

Il fatto é che l'overdose abissale é altrettanto pericolosa dell'overdose verticistica.
E' ciò che penso, ad esempio, quando Jean Brun parla dell'effetto di svelamento della salita alla vetta: "Per accedere alla vetta é stato necessario infrangere quel velo che costituisce il soffitto delle nubi; ..questo squarciare il velo ci invita alla contemplazione della verità.

Ma quale verità?

Una verità sicuramente superiore, nel senso spaziale, geografico, del termine, ma parziale e illusoria, perché per vedere il vertice, intanto, non vediamo più la terra, che é laggiù in fondo, nascosta dal velo delle nubi che abbiamo attraversato, e sulla quale lo stesso grandioso vertice di cui ci riempiamo é peraltro poggiato, altrimenti ruzzoleremmo rovinosamente al suolo, come accade nei sogni ai verticisti inveterati.
D'altronde, Brun stesso corregge il tiro, quando racconta di Novalis e Plotino, secondo i quali "dietro il velo c'é l'uomo stesso", e di Nietzsche, per il quale dietro il velo non c'é niente.
Per cui quanto mai opportuna, e correttiva verso gli sviamenti, e le patologie delle passioni verticali, mi sembra la chiusura del saggio di Brun, quando egli, citando Corbin, ricorda l'"ingannevole prestigio di queste imprese", dopo aver riproposto molto opportunamente l'"antipanorama"della "Notte oscura"di Giovanni della Croce, con i suoi irritanti consigli:

"per venire a sapere tutto
non vogliate sapere qualcosa in niente.
Per venire a possedere tutto
non vogliate possedere qualcosa in niente",

sorta di vademecum per un'operazione perfettamente contraria allo spericolato "alpinismo analogico"( come lo stesso Brun lo definisce), con cui si apre il saggio di Brun, e il libro stesso.  In effetti, il rischio del sovrainvestimento sul paesaggio, e sul viaggio, implicito nella predilezione della dimensione verticale, denuncia una sorta di oralità cosmica. L'individuo, ancora sofferente per essere caduto con la testa sulla terra, tende a negare il suo duro e piatto supporto, (con il suo inesorabile ritmo di luce e ombra), per fuggire in spazi meno palpabili, gloriosamente luminosi o tenebrosi , (a seconda di dove pencola la grandiosità dell'adepto alla verticalità), spazi incommensurabili, dunque non contenuti e non contenenti.

Tra gli aspetti di mancanza di contenimento che contraddistinguono i paesaggi della verticalità un posto eccellente lo occupa la mancanza di relazione. Nei cieli, o verso gli inferi, noi non dobbiamo reggere la tensione tutta umana della relazione, se non per crogiolarci nel senso di potere di chi guarda dall'alto, o dal basso, (a seconda di dove venga posto l'accento della personale grandiosità), la vita banale del "formicaio umano".
L'eroismo siderale, o abissale, é sempre lì, dinanzi a noi.
Dobbiamo riconoscerlo, anche nel suo valore di stimolo, e confrontarcisi, per non rischiare l'appiattimento superficiale della nostra anima, e per non perdere il contatto con questi preziosi fondali dell'immaginazione e della psiche dell'uomo.
Ma personalmente ritengo anche opportuno rifiutarlo; quest'eroismo verticale.
I nostri piedi, le nostre gambe in movimento su questa terra, hanno bisogno di noi, sopra. Non sottoterra, nel sottosuolo hillmaniano. E non oltre chissà quali "veli"di nubi nei cieli.

Qui, sulla terra. Con i suoi frutti. Avvelenati o no.

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