Autunno.gif (6677 byte)

Michela Pereira

LA SAPIENZA ALCHEMICA FRA IMMAGINARIO E FILOSOFIA

Copy of Capolettera_S.jpg (6576 byte)Sono una studiosa dell’alchimia medioevale. Mi occupo professionalmente di storia della filosofia medioevale e il mio campo dunque è una parte, un settore, un periodo di questa tradizione che, come l’introduzione di Mugnai ha mostrato, è molto ampia, multiforme e che favorisce approcci diversi, che quasi – direi - stimola la presa di posizione soggettiva dello studioso, della studiosa che l’affronta, tanto che io avevo scelto come motto per un mio libro sull’argomento una frase di Carl Gustav Jung che dice "l’oggettività scientifica è il manto con cui l’occidente vela a se stesso il proprio cuore". Dunque non voglio presentarvi una visione ‘oggettiva’ dell’alchimia, ma quello che io ho trovato dentro a questa sapienza.
Un altro grande psicologo del profondo del nostro tempo, James Hillman, scriveva una ventina di anni fa: "noi pecchiamo contro l’immaginazione ogni volta che interroghiamo un’immagine per conoscerne il significato pretendendo che le immagini siano tradotte in concetti". Tradurre immagine in concetti è una buona definizione per il lavoro filosofico soprattutto è una buona definizione della filosofia del tempo in cui l’alchimia ha conosciuto, nella nostra civiltà occidentale, il momento della sua massima fioritura: il Medioevo.
Nell’età scolastica i filosofi, quelli ‘ufficiali’, quelli che stanno nei manuali di filosofia, definivano la filosofia come la astrazione delle verità universali dimostrabili che formavano il nucleo della dimostrazione, dalle immagini mentali, da quelli che loro chiamava noi fantasmi. Dunque definivano la filosofia come un abbandonare il campo delle immagini per approdare al campo dell’universale. Ora, anche gli alchimisti si definivano filosofi ma, come vedremo, intendevano questa definizione in senso molto diverso dai filosofi della Scolastica. Gli alchimisti cominciano a lasciare traccia di sé nella nostra cultura medioevale a partire dal XII secolo, quando i primi testi tradotti in latino dall’arabo introducono nell’occidente un sapere che viene recepito come novitas. Dall’arabo al latino si traducono in quell’epoca molti testi filosofici e scientifici, e quando si traduce – per esempio - un testo astronomico o astrologico si può risalire ad auctoritates dell’età classica per collocare questo sapere. Quando si traducono testi medici, anche lì ci sono autori della tarda antichità che hanno costituito il solco di una tradizione. Quando si traducono invece testi alchemici, arriva qualcosa che è assolutamente nuovo, qualcosa che è assolutamente inedito per quella cultura, per quell’epoca. Ma, appunto, questo qualcosa è definito, dagli autori che ne scrivono, ‘filosofia’.
Copy of Capolettera_G.jpg (15888 byte)Gli alchimisti dunque si definiscono ‘filosofi’ ma, diversamente dai filosofi scolastici, non vogliono astrarre l’universale dall’immagine, non vogliono abbandonare il sostrato materiale dell’immagine. Si può prendere come motto degli alchimisti una frase che ricorre spesso nei testi dell’elixir, quelli che appunto all’inizio del ‘300, come vedremo in seguito, sembrano riportare alla luce il significato più primitivo e più pieno del sapere alchemico. In molti di questi testi ricorre una frase che in latino dice "Accipe nigrum nigrius nigro" (prendi quella cosa oscura che è più oscura dello scuro). È l’alchimista maestro che spiega al suo discepolo, perché il sapere alchemico si trasmette in una iniziazione, in un contatto diretto, familiare fra il maestro e il discepolo, e il suo discorso concerne la materia prima, il segreto centrale dell’alchimia, il cui mistero e la cui indeterminatezza sono qualcosa che non può essere tradotto in concetti. Eppure lo stesso alchimista, che insegna a partire da questa oscurità più oscura dello scuro, si definisce filosofo. La materia prima non può essere detta, non può essere definita, non può essere ridotta in parole che esprimono concetti o appunto una definizione precisa, ma deve essere indicata attraverso un paradosso per poter essere comunicata; può solo essere mostrata, eppure si deve insegnare a raggiungerla, a lavorarla: la conoscenza della materia prima deve essere veicolata da un linguaggio che però non può essere il linguaggio della astrazione.
L’alchimia dunque non è una scienza dimostrativa, come invece la filosofia si propone e riesce ad essere, in età scolastica. L’insegnamento alchemico è comunicazione di una sapienza che si apprende attraverso un’esperienza multiforme, il cui scopo iniziale è quello di mettere in contatto con il substrato materiale della realtà, ed il cui scopo finale è quello di dare a questo substrato materiale della realtà la massima perfezione. L’incorruttibilità, appunto, di cui l’oro è un simbolo ed è anche una realizzazione concreta ma parziale. Questa esperienza non esclude l’esperienza intellettuale vera e propria, ma la ingloba insieme ad altri tipi di esperienza.
Miniatura4_1.jpg (15800 byte)Gli alchimisti insegnano ai loro discepoli a documentarsi sui libri, a leggere, anzi a leggere molto perché un libro ne apre un altro, un libro dice le cose che nell’altro sono rimaste nascoste. Ma insegnano anche ad abbandonare i libri nel momento in cui non servono, nel momento in cui bisogna tacere e osservare quello che fa il maestro, nel momento in cui bisogna raccogliersi e aspettare l’illuminazione. Insegnano a non limitarsi semplicemente a leggere i libri facilmente disponibili, ma ad andarli a cercare, in una ricerca che è un viaggio, spesso figurato ma spesso anche no. Un alchimista della metà del ‘300, Leonardo di Maurperg, ha lasciato un vero e proprio taccuino dei suoi viaggi, degli incontri che ha fatto, delle ricette che ha imparato dall’uno, dei segreti che ha appreso dall’altro e dunque ci racconta quasi dal vivo quello che effettivamente era un coinvolgimento del corpo, un coinvolgimento non solo intellettuale, in questa ricerca.  Quindi la ricerca, il viaggio, l’incontro casuale: tanti racconti alchemici narrano proprio della scintilla che scocca, quando uno che va alla ricerca incontra l’altro che sa - ma non sapeva dove era l’altro che sapeva, lo incontra quasi per caso, lo riconosce.
Lo riconosce perché, dice un altro trattato, il Libellus de alchimia attribuito ad Alberto Magno, gli alchimisti dovunque siano si riconoscono fra loro, e se ce ne sono due o tre in una grande città, si troveranno e cominceranno a conversare fra loro. Quindi l’incontro; e poi la devozione dell’apprendista al maestro e anche l’affinamento etico, e infine l’illuminazione che può venire direttamente da Dio o può venire attraverso le parole del maestro: sono tutti modi, un mosaico di modalità con cui gli alchimisti entrano in possesso, o si potrebbe anche dire che vengono posseduti, da una sapienza che non rinuncia a voler includere la materialità del reale. Dunque la conoscenza alchemica non astrae il concetto dal fantasma, ma ne riconosce l’irriducibilità a parole: eppure si dichiara filosofia.
Copy of Capolettera_P.jpg (13799 byte)Per non far torto a questo carattere dell’alchimia, non riducibile, appunto, a parole (per quanto possano essere non rigorosamente astratte o concettuali), ho scelto di costruire questa mia conversazione con l’aiuto di una serie di immagini. Questa scelta è anche legata al fatto che, come ho già anticipato, ritengo che un momento cruciale nella storia dell’alchimia sia il passaggio fra il ‘200 e il ‘300; perché in questo sapere, che i latini avevano ricevuto dagli arabi e nel quale dapprima avevano soltanto confusamente creduto di riconoscere una specie di super-metallurgia, l’arte di fare l’oro dai metalli vili (e questo si mantiene vero per tutti i testi del ‘200), in esso a un certo punto - per una serie di influssi interni e forse anche esterni - gli alchimisti occidentali cominciano a riscoprire quello che è il senso più complessivo dell’alchimia.
L’alchimia arriva così ad essere compresa come ricerca della perfezione materiale non solo dei metalli, ma anche del corpo umano: quindi una ricerca di perfezione che coinvolge lo stesso artefice, in prima persona, e anche una ricerca di perfezione che non può prescindere da un affinamento etico e dunque da una crescita spirituale dall’inizio alla fine di questa ricerca. Questo complesso di idee lo riconosciamo nei testi del primo ‘300, e in particolare in quei testi dedicati alla ricerca dell’elixir, molti dei quali sono stati tramandati sotto il nome di un filosofo che si chiamava Raimondo Lullo, una filosofo catalano contemporaneo di Dante, che di per sé non aveva scritto niente di alchimia, anche se nelle sue opere si vede che era al corrente dell’esistenza di essa, ma anzi è diffidente nei suoi confronti. Miniatura2_1.jpg (14837 byte)E tuttavia si cominciano a scrivere dei testi, attribuendoli a lui, che hanno, rispetto ai testi precedenti e rispetto a tutta la successiva tradizione dell’alchimia post quattrocentesca, una caratteristica estremamente interessante. Vogliono infatti chiaramente mettere in comunicazione questo sapere che nasce dal fare, da questa ricerca di un opus che produca un agente di perfezione, con il sapere filosofico del loro tempo.
Il più importante, il primo di questi testi si chiama Testamentum, ed è un esempio di questo tentativo di collegare questi due piani. Usa il linguaggio dei filosofi per dire cose che un filosofo non potrebbe mai dire, per esempio che "il vero temperamento, il vero equilibrio degli elementi lo si ottiene attraverso un’operazione manuale". Un filosofo scolastico non avrebbe mai pensato che l’operazione manuale fosse una via di accesso alla filosofia: al massimo l’operazione manuale aveva una sua dignità come attività utile all’umanità, ma non una dignità filosofica. Invece l’alchimista dice proprio questo. Allora, ecco i testi dell’elixir, i testi attribuiti a Raimondo Lullo come momento nel quale io vedo confluire tutti i temi dell’alchimia in una formulazione particolarmente rilevante perché cerca il dialogo con il resto del mondo, con il resto della vita intellettuale del suo tempo. In seguito il rifiuto dell’istituzione universitaria, il rifiuto del sapere ufficiale, a confrontarsi con questo sapere alchemico, cioè ad includerlo nel novero delle discipline legittime - cioè insegnabili -, indurrà gli alchimisti a richiudersi in un ambito, sempre più ristretto, ad occultare il proprio sapere che come dice Gilbert Durand, è occulto, per noi, perché è stato occultato, in quel momento storico.
Miniatura3_1.jpg (9916 byte)Dell’alchimia pseudo-lulliana, attribuita cioè a Raimondo Lullo, esistono molti manoscritti, uno dei quali, conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, è un documento splendido. È un manoscritto della fine del ‘400, che però riporta testi sull’elixir scritti nel secolo precedente, un manoscritto probabilmente confezionato per un medico, poiché sono molti in quell’epoca i medici che hanno interesse per l’alchimia fra il ‘300 e il ‘400; è comunque chiaramente un manoscritto commissionato da una persona molto danarosa e contiene una serie di miniature , dipinte dal celebre miniaturista Gerardo da Cremona, che accompagnano i testi. Queste miniature stanno, in genere, nei capilettera iniziali dei testi; quindi hanno una funzione esornativa, ma anche visualizzano dei motivi che sono, in questi testi, motivi centrali. Ecco allora perché ho scelto questa serie di miniature. Non ho portato tutte le miniature contenute in questo manoscritto, ma una scelta che ho ritenuto particolarmente significativa.


doorin2.gif (3615 byte)

Torna a
Indice Volume

doorin.gif (3582 byte)