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Pensiero e sentimento
in Ignazio di Loyola

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Nel periodo di grandi scoperte e radicali trasformazioni del XVI secolo, l’orientamento del mondo occidentale vira, come osserva De Certeau (Fabula Mistica), verso la trasparenza. Ciò che è nascosto deve diventare manifesto, visibile. A livello sensoriale sono gli occhi a prendere gradualmente il sopravvento sugli altri organi, tattili, uditivi, olfattivi.
In ambito religioso, questo processo, le cui radici risalgono probabilmente al XII secolo, raggiunge, con la Riforma, un primo compimento. Secondo l’analisi di M. De Certeau, le due principali fonti della tradizione cristiana, o meglio, i “misteri” che il corpus scritturale e il corpo mistico di Cristo custodivano, vengono gradatamente sottratti all’occultamento visivo (dal quale, sino ad allora, solo gli appartenenti all’istituzione erano esentati), ed esposti l’uno, (il testo), alla “...«volgarizzazione» di una predicazione chiara...” (M. De Certeau, Fabula Mistica, p. 134); l’altro, (il corpo), alla “...«masticazione» o «divoramento» visuale” (ibidem).
Il Cristianesimo viene rifondato sulla base di questi due elementi visibili: “Questa è l’impresa della Riforma. A poco a poco essa si divide in due tendenze: una (protestante) che privilegia il corpus scritturale, l’altra (cattolica) che privilegia il sacramento” (ibidem, p. 131).

Entrambe le concezioni mostrano comunque di preferire ciò che è visibile all’invisibile, ciò che è “razionale”, nel senso di ragionevole, ordinato, distinguibile, comprensibile all’intelletto, all’”irrazionale”, nel senso di disordinato, caotico, oscuro.

M. Foucault (M. Foucault, Le parole e le cose), riferendosi più in generale ai processi culturali che caratterizzano la società occidentale dell’epoca, parla di passaggio dall’universo della somiglianza a quello della differenza. Dell’inversione di una visione implosiva, cioè di una sistole, che fino ad allora aveva teso all’unificazione dei singoli elementi evidenziandone le attinenze, in una diastole determinata dalla tendenza alla diversificazione degli elementi del reale, da una concezione che pone l’accento sulla diversità, che si sforza non di unificare ma di distinguere, di isolare, le componenti della realtà.

La contrapposizione visibile/invisibile si esprime qui nella separazione dei termini segno/simbolo, dove il segno precisa appunto la differenza, lo specifico significato di ogni singolo elemento del reale, lo rende visibile, lo chiarifica, sottraendolo all’oscurità dell’indistinguibile, al regno della similitudine; in cui il simbolo rappresenta invece l’interazione dinamica di elementi in stato di fusione: “... le somiglianze e i segni hanno sciolto la loro antica intesa; le similitudini deludono, inclinano alla visione e al delirio; le cose restano ostinatamente nella loro ironica identità: sono soltanto quello che sono...” (ibidem, p. 62).

Emergono così due realtà, si costituiscono e si fronteggiano due tipi di esperienza (i cui confini si determineranno gradatamente in modo sempre più netto), delle quali quella del somigliante, dell’invisibile, abiterà, in campo laico, lo spazio emarginato della follìa, e, in ambito religioso, quello della mistica.

Nella visione junghiana, lo sviluppo in senso logico-razionale della cultura occidentale viene esaminato in relazione al particolare orientamento intrapreso dalla coscienza dell’uomo, dall’Io, nel suo costituirsi tramite un processo graduale di differenziazione dal magma caotico delle dinamiche pulsionali e inconsce. Secondo Jung il campo circoscritto della coscienza, di cui l’Io è il centro, definisce solo una delle parti che compongono la psiche di un individuo. La coscienza è il luogo dove le rappresentazioni psichiche sono caratterizzate da “...un alto grado di continuità e identità...” (C.G. Jung, Tipi psicologici, p. 468); continuità e quindi riconoscibilità, ottenuta selezionando e sottraendo alcune rappresentazioni all’incessante dinamica con-fusiva dell’inconscio. Un’attività selettiva, quella dell’Io, indispensabile quindi alla creazione dell’identità individuale, attività che deve essere però considerata come parte di una più vasta configurazione psichica. La personalità non consiste unicamente di questa particolare funzione, ma può essere invece definita, per Jung, come un rapporto fra l’Io e le componenti inconsce, una situazione di relazione che permette l’interazione dinamica e l’osmosi dei contenuti di entrambi i campi della psiche. Il corretto collegamento di questi vasi comunicanti garantisce la fluidità e l’elasticità necessarie all’energia psichica per fronteggiare le mutevoli esigenze dell’adattamento alla realtà.

Nel mondo occidentale il processo di differenziazione della coscienza non rimane però contenuto entro i limiti di un tale rapporto dinamico; si sviluppa invece risolutamente lungo la direzione unilaterale della funzione logico-razionale della psiche, percorso che conduce, secondo Jung, alla scissione fra l’Io e la sua base pulsionale e alla conseguente negazione, rimozione, da parte della coscienza, degli aspetti “irrazionali” della personalità e delle relative funzioni psichiche.

Jung indica il secolo dell’Illuminismo come il periodo in cui la tendenza unilaterale alla razionalizzazione raggiunge un compimento estremo (una delle immediate conseguenze è la progressiva desacralizzazione della realtà). Già nel XVI secolo si attua però una svolta fondamentale, le cui caratteristiche emergono, in questo senso, dall’indagine delle configurazioni spirituali che si delineano all’epoca della Riforma. G. Bataille (G. Bataille, La parte maledetta), ad esempio, osserva che la reazione dei protestanti al decadimento mondano della Chiesa Cattolica, radicalizzando la separazione tra vita terrena e vita dello spirito, sospinge drasticamente la figura divina verso l’astrazione e la trascendenza: il rapporto con Dio si svilupperà, da quel momento, sempre più sulla direttrice “paterna”, sul piano dialettico e speculativo (che alimenterà notevolmente l’aspetto etico-morale), sottraendosi progressivamente all’esperienza concreta del sacramento e alla pratica rituale, esperienze che prevedono la partecipazione anche delle componenti della psiche, pulsionali e sensoriali, legate all’universo simbolico della “madre”.

Il ricorso alle categorie tipologiche junghiane, e in particolare al concetto di “funzione”, consente, a mio parere, di precisare ulteriormente la fisionomia dei cambiamenti psichici e spirituali che vanno compiendosi nel 1500.

Secondo Jung le “funzioni” dell’uomo – cioè le attività della psiche «che in circostanze diverse rimangono fondamentalmente uguali a se stesse» (Jung, Tipi psicologici, p.445) – sono irriducibilmente in numero di quattro, due “razionali” e due “irrazionali”. Il “pensiero” e il “sentimento”, sono considerate funzioni “razionali”, in quanto operano una selezione delle percezioni, rispettivamente in base a parametri logici (il pensiero), o di piacere/dolore (il sentimento). La “sensazione” e l’“intuizione” sono invece funzioni puramente percettive e quindi “irrazionali”, nel senso che non operano selezioni ma si limitano ad accogliere il materiale, rispettivamente cogliendone i singoli particolari (la sensazione), o afferrandone la sintesi (l’intuizione). Le possibili combinazioni delle quattro funzioni con i due “tipi generali di atteggiamento” (introverso ed estroverso), danno origine alla tipologia di base, descritta da Jung nel suo saggio fondamentale Tipi psicologici (1921), cui rinvio per una trattazione esauriente dei temi qui appena accennati.

In generale si osserva che il campo limitato della coscienza non permette l’impiego contemporaneo di più funzioni le quali, per la loro struttura antitetica, tendono in una certa misura ad escludersi vicendevolmente: se, ad esempio, l’attenzione cosciente sta seguendo un percorso logico, cioè sta considerando una determinata situazione dal punto di vista del “pensiero”, non può, in quello stesso momento, esprimere valutazioni basate sul “sentire”, poiché le due funzioni, per definizione, presentano parametri non commensurabili fra loro (anche il linguaggio comune porta tracce di questa antitesi, ad es.: valutare «a caldo» o «a freddo»).

Perciò, sia nell’orientamento individuale che in quello collettivo si assiste, normalmente, al prevalere di una funzione sulle altre, che svolgono così la loro specifica attività in posizione subordinata alla cosiddetta “funzione principale”, la quale invece impronta di sé in maniera decisiva la tendenza degli individui o delle società che la esprimono. I vari contesti culturali e le trasformazioni che questi subiscono nello spazio e nel tempo, possono essere quindi indagati anche dal punto di vista delle caratteristiche funzionali: in Occidente, secondo Jung, si assiste, come già accennato, al progressivo affermarsi della tendenza alla razionalizzazione e all’astrazione, e al predominio del “pensiero” sulle altre funzioni della psiche.

In altre parole, ciò significa che l’individuo singolo o il collettivo così connotati, ricorrono “normalmente” allo strumento del “pensiero” nel confronto con la realtà, confidano soprattutto nella logica per operare delle scelte ed adottare i comportamenti necessari. Le altre funzioni sono perciò svalutate, vengono automaticamente considerate meno “affidabili” o addirittura controproducenti. Quando questo processo si radicalizza, la direzione diventa unilaterale, l’atteggiamento della coscienza rimuove nell’inconscio le funzioni secondarie, e soprattutto quella opposta alla funzione principale. Nel caso della società occidentale contemporanea un tale destino è capitato al “sentimento”: lo dimostra il fatto che questa funzione è oggi comunemente considerata “irrazionale” nel senso negativo di perdita della visione obiettiva, cioè ha subìto una svalutazione proprio in quanto strumento affidabile per la decifrazione e l’interazione con la realtà. Invece, “pensiero” e “sentimento” sono ambedue funzioni razionali, in quanto il loro impiego implica un giudizio che opera selettivamente sulla realtà percepita. Mentre il pensiero attua le proprie distinzioni su base logica, cioè considerando deduttivamente i contenuti in esame, il sentimento “...conferisce al contenuto un determinato valore nel senso di un'accettazione o di un rifiuto (‘piacere’ o ‘dolore’)” (Jung, ibidem, p.480). Nella misura in cui il singolo riesce a trascendere i limiti della propria visione parziale, entrambe le funzioni contribuiscono a determinare un quadro più “oggettivo” della realtà, e, in questo senso, non sempre, né ovunque, la funzione del “pensiero” è stata considerata quella che offriva maggiori garanzie.

Da questo punto di vista le due direzioni intraprese dalla Riforma, quella protestante, con il rinnovato impulso dato da Lutero all’interpretazione delle Scritture, e quella cattolica con la riaffermazione dell’importanza dei Sacramenti e le innovazioni metodologiche di Ignazio, mi sembrano rivestire un particolare interesse per la comprensione della trasformazione in senso razionale della società che inizia a delinearsi nel XVI secolo.

Impiegando un concetto centrale della psicologia di Jung, potremmo dire che, intorno al 1500, l’archetipo cristiano mostra segni di evidente decadenza: sotto il profilo dell’energia psichica, si assiste alla progressiva stagnazione della libido, dovuta, da un lato, all’irrigidirsi della Chiesa in un atteggiamento dogmatico oppressivo e estremamente chiuso, dall’altro al degrado spirituale dilagante nei quadri della gerarchia ecclesiastica. È addirittura automatico che una tale situazione esploda non appena si configura all’orizzonte un’immagine capace di fornire un nuovo sbocco all’ingorgo energetico; e Lutero fornisce questa immagine che, pur restando nei limiti della figura archetipica di Cristo, modifica radicalmente il modo di considerarla e di confrontarvisi, interpretando in maniera soddisfacente l’urgenza di libertà e partecipazione individuale del suo tempo. Un’immagine che concede all’individuo, restituito al rapporto diretto con Dio, la possibilità di impiegare liberamente appunto la funzione del “pensiero”, non più incatenata da dogmi imposti e incomprensibili, ma regolata da un rinnovamento ferreo sul piano della condotta morale. L’energia psichica repressa viene naturalmente attratta dal nuovo gradiente e si incanala prontamente nella nuova direzione, in sintonia con il kairòs dell’epoca.

In ambito cattolico, l’importanza della figura e dell’opera di Ignazio nel rinnovamento della Chiesa e l’immediato successo ottenuto dalla Compagnia di Gesù, allora appena costituita, sembrano una diretta conseguenza delle novità metodologiche introdotte dal padre dei gesuiti. È indubbio che il grande impulso dato all’attività missionaria, l’impiego degli Esercizi Spirituali come strumento spiritualmente formativo, l’importanza attribuita all’aspetto pedagogico e all’operosità, cioè all’applicazione nella pratica dell’insegnamento di Cristo, sono modalità che offrirono (ed offrono) notevoli possibilità di espressione alle capacità individuali. Inoltre tutte queste attività si inserirono perfettamente nel nuovo scenario cristiano la cui struttura, come osserva De Certau, dalla Riforma in poi si configura come una suddivisione dei fedeli in “partiti” religiosi, non dissimili da quelli politici: questi “partiti” saranno chiamati, da quel momento, ad una costante attività di propaganda ed educazione spirituale, onde conquistare alla propria concezione il maggior numero di proseliti. È questo ampio spazio dedicato al “servizio”, professato all’insegna di un naturale atteggiamento pragmatico e razionale (“il pensiero per l’azione”), che ha indotto negli agiografi un’immagine stereotipa di Ignazio: “... un grande asceta e uno stratega religioso dotato di un'estremo realismo.” (Loyola, Gli scritti, cit. p. 266).

Dal punto di vista psicologico questa analisi non può risultare del tutto convincente: trasformazioni come quelle del XVI secolo, che coinvolgono gli strati profondi della psiche collettiva e muovono intere società, non possono scaturire dal semplice ricorso a nuove strategie, per quanto abilmente portate avanti. Il “Rinascimento” delle energie psichiche, può essersi verificato solo se immagini veramente nuove sono comparse sulla scena a infrangere l’impasse dell’ingorgo libidico. Sovente accade che l’esperienza personale di singoli personaggi si sovrappone perfettamente all’immagine collettiva emergente e ne diventa il catalizzatore e lo strumento espressivo: è il caso di Lutero, come già abbiamo detto, per il mondo anglosassone. Ed è il caso di Ignazio per il mondo cattolico. Ma, se Lutero è radicalmente innovativo, soprattutto sul piano del “pensiero”, l’opera di Ignazio sembra, a prima vista, non oltrepassare i limiti della moralizzazione e della riorganizzazione di una struttura, quella della Chiesa, che viene anzi riconfermata proprio nei suoi cardini: l’autorità del Papa, la gerarchia ecclesiastica, la pratica sacramentale, la dogmatica (“Per non sbagliare, dobbiamo sempre ritenere che quello che vediamo bianco sia nero, se lo dice la Chiesa Gerarchica.” - Esercizi Spirituali, 13a regola [365]).

Per Ignazio, l'intero percorso umano, dalla nascita alla morte, alla rinascita nella vita ultraterrena, non può compiersi che in Dio, principio e fine di tutto l'esistente. Costitutiva dell'uomo è però anche una lacerazione nel suo essere che tende a separarlo dalla divinità, e lo costringe ad un lavoro nell'intento di recuperare e mantenere il rapporto, il collegamento con Dio. L’originalità del Loyola nasce da questa consapevolezza e si concretizza nell’elaborazione di una tecnica meditativa che consente di ristabilire questo collegamento. Una tecnica, quella degli Esercizi Spirituali, che invece di privilegiare il piano speculativo o contemplativo della meditazione, cioè di affinare e chiarificare il “pensiero” divino, si inoltra risolutamente sul terreno delle emozioni, rivolgendo tutta l’attenzione agli stati d’animo, alle sensazioni, alle reazioni del corpo. Ciò che Ignazio si propone con tutte le forze di raggiungere, non è tanto una maggiore comprensione intellettuale della volontà divina, quanto un “sentimento”, uno stato d’animo definito, sereno ed ordinato, sul quale fondare saldamente la propria scelta. L’atteggiamento razionale di Ignazio non si fonda quindi sulla logica, il cui regolare impiego è, per così dire, scontato ed automatico nelle questioni di ordinaria amministrazione. Spesso, però, nella vita umana, si verificano situazioni che non è possibile decrittare, circostanze binarie in cui due opposte strade appaiono entrambe percorribili, e in cui il Nemico può dimostrare tutta la sua capacità di contraffazione della realtà. L’esperienza dei mesi successivi alla conversione, durante i quali, come viene narrato nell’autobiografia, Ignazio dilacerò a lungo il proprio spirito nel dubbio e nell’incertezza sulla strada da seguire, su quale fosse la Volontà divina, dimostra al Padre dei gesuiti la facilità con la quale l’uomo può essere ingannato e separato da Dio. Solo da Dio può allora procedere un segno indubitabile, la certezza di poter effettuare la giusta scelta di vita. Questo segno non dimostra la maggiore validità logica di una delle vie piuttosto di un’altra; interviene invece sul piano emozionale, fa “sentire” in maniera indubitabile e definitiva, qual’è la scelta giusta .

La tecnica degli Esercizi Spirituali è elaborata, come osserva R.Barthes, al fine di ristabilire un ponte, una via d'accesso a Dio, inteso come il luogo dell'autenticità dell'essere. Tutto ciò è concepito da Ignazio come un "processo", come una modalità instancabilmente dinamica; egli si differenzia, pur attingendone a piene mani (in particolare riguardo alla preghiera legata alla respirazione), dalle tradizioni meditative estatiche, le cui radici, dalla pratica della devotio a lui contemporanea, possono risalire, attraverso la Chiesa d'Oriente e l'esicasmo di Giovanni Climaco, probabilmente sino alle pratiche sufi. Queste tecniche tendono, come evento finale, all'"unione con Dio", nel senso della dissoluzione della discontinuità dell'individuo nella continuità dell'eterno. La "visione" di Dio provoca la fusione della parte nel tutto, è il particolare che è finalmente riuscito a liberarsi di tutte le imperfezioni determinate proprio dalla sua particolarità. Tale orientamento produce, in genere, un progressivo disinteresse per la contingenza del mondo materiale e storico. In Ignazio si verifica un atteggiamento opposto: ugualmente proiettato verso l'incontro con Dio, ugualmente partecipe di una intensa vita mistica, egli, alle tre vie classiche dell'elevazione spirituale (purgativa, illuminativa, unitiva), ne aggiunge una quarta, per lui indispensabile, che riconduce dal cielo alla terra. Il padre dei gesuiti, è ben poco interessato al raggiungimento di stati "ineffabili" dello spirito; per lui è l'incarnazione di Cristo il modello più adeguato per la condotta dell'uomo: il Figlio di Dio sulla croce che sopporta su di sé la tensione dei due opposti bracci, è la rappresentazione simbolica più pregnante e idonea ad esprimere la condizione e il compito dell'umanità. Il centro della croce è il punto di convergenza degli opposti; in quel luogo e in quel momento si uniscono discontinuità e continuità dell'essere: è qui che la limitatezza del singolo può spingersi oltre la propria ingannevole provvisorietà e attingere la conoscenza autentica nella dimensione universale di Dio.

La vita terrena di Cristo è la descrizione del percorso operativo dell'uomo verso la trascendenza: le meditazioni degli Esercizi Spirituali sono meditazioni tematiche sugli episodi salienti della vita di Gesù; l'esercitante deve impegnare l'intero suo essere, compresi i cinque sensi fisici, nell'immaginare un certo quadro sin nei minimi particolari, immedesimandosi progressivamente nel personaggio.

Il sentire è in primo piano. Sul palcoscenico ignaziano si agisce un "teatro" altamente drammatico: gli attori, ai quali sono fornite sintetiche e asciutte descrizioni delle figure e dello svolgimento della vicenda, sono chiamati a riempire gli spazi indicati con le proprie emozioni e sentimenti, esasperando la percezione sino all'insostenibilità.

Quando il calice è bevuto a fondo, quando il Cristo "muore" crocifisso, solo allora si manifesta in modo determinante l'intervento divino che genera la trasformazione e la rinascita.

Dalla lettura delle poche pagine del Diario Spirituale, che si compongono delle brevi, essenziali annotazioni autografe, costellate di decine di sigle e interpunzioni, scaturisce l’immagine di un uomo preoccupato unicamente delle proprie reazioni emotive, meticoloso nell'ascolto delle inclinazioni dello spirito. Il Diario è un esempio dell'applicazione della tecnica degli Esercizi Spirituali. Si compone del resoconto dettagliato dei quaranta giorni trascorsi da Ignazio a meditare sulla questione delle rendite dell'allora costituenda Compagnia di Gesù: se, per i gesuiti, fosse più proficuo, ai fini dell'apostolato, possedere alcunché o, al contrario, permanere in assoluta povertà. È interessante osservare che Ignazio si accinge alla meditazione dopo aver esaminato a fondo, assieme ai confratelli, ogni possibilità che la logica del pensiero poteva offrire a favore dell'una o dell'altra scelta, e dopo averle elencate in un documento, la "Deliberazione sulla povertà", che presenta la configurazione binaria (da una parte i pro, dall'altra i contro) tipica del codice ignaziano. Secondo R. Barthes, che ha passato gli Esercizi al setaccio della linguistica, Ignazio ha elaborato un vero e proprio codice mantico, un linguaggio, inteso come strumento che collega fra loro due interlocutori, l'esercitante e Dio. Come nell'antichità classica e nella mantica in genere, l'esecuzione di complessi rituali e le offerte sacrificali cercavano di suscitare il responso dell'oracolo, così la meditazione guidata di Ignazio si costituisce in quanto "codice della domanda", tecnica finalizzata ad ottenere la manifestazione di Dio in risposta alle scelte da compiere.

Le giornate di Ignazio trascorrono ritmate dalle preghiere, scrupolosamente programmate, scandite dalla celebrazione delle messe e delle funzioni della comunità; l'attenzione è tutta rivolta alle variazioni della disposizione dell'animo e soprattutto alle manifestazioni fisiche che accompagnano i mutamenti dell'umore: si contrappongono, nelle annotazioni, stati di desolazione - caratterizzati da inquietudine, sfiducia, mancanza di gusto, aridità -, a momenti di consolazione, in cui lo spirito, "visitato" dai mediatori e da Dio, s'infiamma d'amore e di speranza, e il nodo che soffocava l'animo si scioglie in "lacrime copiose, tanti singhiozzi, energie nuove".

Dicono che i suoi occhi fossero perennemente velati dalle lacrime, che nei periodi di massima commozione raggiungevano un'intensità tale da provocargli temporanee cecità e farlo temere per la propria vista. Le "energie nuove" sgorgano dagli occhi di Ignazio, provenienti dalle profondità interiori, come l'acqua dalla terra.

Potremmo esasperare l'analogia: Ignazio è un rabdomante. Il suo scopo è irrigare le zone inaridite dello spirito, individuare e collegarsi con nuove sorgenti che rompano l'afasia e mettano fine alla sterilità.

Anche il suo strumento è una forca (R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, p. 45): si tratta di equilibrare i due rami contrapponendoli in un crescendo ossessivo fino alla "crisi" che estenua le proprie inclinazioni e permette di presentare all'intervento divino una bilancia sensibilissima; il peso, la marca (ibidem, p. 60) di Dio, graverà allora su uno dei due piatti, indicando la direzione da seguire, come la bacchetta (rhabdòs) biforcuta, retta dalle mani equanimi del cercatore, vibra e si piega da una parte, attratta nel campo di forza del flusso sotterraneo.

Conviene precisare che Ignazio non pone in primo luogo il problema del reperimento di energie; la sua costante preoccupazione sarà invece quella di comprendere e chiarire l'orientamento, il giusto canale nel quale le energie devono essere convogliate. Le meditazioni delle quattro settimane che costituiscono gli Esercizi Spirituali, sono elaborate secondo criteri il cui scopo, come enunciato nella definizione degli Esercizi, è di "... mettere ordine nella propria vita senza prendere decisioni in base ad alcuna propensione che sia disordinata" (Loyola, Gli scritti, p. 100). Il testo stesso degli Esercizi, che descrive dettagliatamente la successione cronologica delle azioni e degli oggetti della meditazione, è correlato da numerose regole per il discernimento degli spiriti (ibidem, p. 179).

Le immagini che Ignazio codifica per scandire il percorso meditativo somigliano ai quadernetti dalle illustrazioni tracciate solo nei contorni, che i bambini devono colorare. In questo senso gli Esercizi sono propriamente un rito, la cui articolazione circoscrive il temenos, lo spazio sacro all'interno del quale i partecipanti agiscono il pathos, il colore, l'energia emozionale necessaria allo svolgimento del dramma. E il dramma, da sempre, è ovunque lo stesso: l'epifania, o meglio, nel caso di Ignazio, la semiofania del numen, l'irruzione dell'inconscio.

Quando la meditazione viene spinta all’estremo, quando l’Io non può più sostenere il paradosso di due inclinazioni perfettamente bilanciate, il procedimento genera la crisi del sistema razionale, e si produce la frattura da cui sgorga una "terza via", che esprime non una inusitata forma di pensiero, ma un nuovo sentimento, un'energia qualitativa non più inquinata dal dubbio.

Per Jung, il pericolo maggiore per la salute dello spirito consiste nella separazione fra l'Io e l'inconscio: per la vita psichica è fondamentale che questi due fattori interagiscano fra loro, tanto che il presupposto per l'evoluzione dell'individuo è il ritrovato collegamento con la base pulsionale, il contatto con il Sé, il luogo dove le componenti della psiche procedono assieme. La tecnica degli Esercizi Spirituali è concepita precisamente allo scopo di recuperare il legame con Dio, di creare un ponte che permetta all'uomo, confuso dalla propria scissione, di sperimentare la serenità dell'assoluto.

Lo sforzo di Ignazio, dal punto di vista psicologico, è di rigenerare l'archetipo di Cristo, simbolo dell'unione di divino ed umano, con l'organizza-zione di un complesso ed eclettico sistema di rapporti fra le funzioni dell'uomo e Dio, che si compenetrano strettamente tramite il rituale. Il suo lavoro si inserisce perfettamente nel processo di trasformazione in senso razionale della società del XVI secolo, ma invece di privilegiare, come Lutero, la funzione del “pensiero”, instaurando il rapporto con Dio su base intellettuale, elabora un metodo, quello degli Esercizi, che permette di dialogare con la divinità sul terreno meno astratto delle emozioni. Anche se questo aspetto del suo metodo verrà ben presto messo in disparte dalla Compagnia, che preferirà ampliare al massimo gli aspetti pedagogici, l’opera di Ignazio rappresenta uno di quei rari e brevi momenti di armonica sintesi della dinamica delle funzioni psichiche.

Dario Squilloni
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