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Vertigine

Pier Nicola Marasco

Il prologo.

L'argomento, che l'intitolazione del convegno - il Vertice e l'Abisso - delimita, chiamando in causa termini come simbolo, universo simbolico ed esperienza del sacro, evoca in me due atteggiamenti: un atteggiamento di modestia e un atteggiamento di prudenza.

Riguardo al primo, dichiaro di volermi attenere al ristretto campo della "professione", con ciò specificando il "punto di vista"da cui osservo e descrivo l'argomento: parlo delle forme di esperienza che si fanno in psicoterapia analitica e per le quali si ritiene valga la pena di scomodare termini come simbolo e simbolico. Alla modestia del "punto di vista"accosto, per così dire, la modestia dello sguardo: la capacità di penetrazione del discorso sul tema, per come si è sedimentato nella mia biografia. Fin dagli esordi analitici, mi sono trovato di fronte la difficoltà a sceverare quella che mi veniva presentata come la differenza tra il simbolismo freudiano e l'accezione di simbolo nel quadro teorico di Jung, snodo attorno al quale si definisce quella pratica fondamentale del lavoro analitico che rientra nel problema dell'interpretazione.

La mia storia in proposito si è costruita attorno all'intento di "mettere a fuoco"e "mettere a punto"un'idea relativa al simbolo ed alle sue concatenazioni sia con l'atteggiamento terapeutico - quello che passa anche sotto la dizione di "ascolto analitico"- sia con l'interpretazione analitica. Mi sarò messo al compito, nell'arco di una trentina di anni, per lo meno quattro volte, ed alla fine di ogni volta e di ogni sforzo, quando cominciavo a vedermi crescere tra le mani qualcosa, mi sono reso conto che la cornice culturale in cui m'ero mosso era mutata. Più rapido è stato in questi anni lo slittamento del problema entro nuove cornici - l'innovazione dell'orizzonte teorico - di quanto non sia stato il lavoro di chiarificazione sul simbolo che al loro interno m'impegnava. So del simbolo, oggi - se il sapere si misura su argomentazioni certe e conclusioni definite - quanto ne sapevo agli inizi della carriera, e la definizione del campo mi resta più facile se l'affronto in termini negativi - ciò che simbolo non è - che non in termini positivi: ciò che è veramente il simbolo. Ho anche il sospetto che il termine simbolo venga chiamato in causa ogni volta che si avverte la complessità degli atti di espressione, di comunicazione, di interpretazione e degli atti narrativi e di pensiero; in altre parole, quando l'universo della significazione si configura come un discorso che presume troppo di sé: che descrive delle cose ed assieme comunica le cose e la nostra posizione su di esse; quando la descrizione delle cose appare inevitabilmente una loro interpretazione, e chi interpreta ( ed assieme descrive)le cose, vuol far di queste qualcos'altro; quando lascia trasparire che la descrizione-interpretazione-comunicazione è interessata: fa l'occhiolino al consenso, cerca la giustificazione, seduce o terrorizza l'interlocutore. Anche singole e semplici proposizioni hanno senso ed effetto in quanto parti di un discorso complesso, "che viene da lontano", e che è sempre discorso "su di noi", "attorno a noi", "dentro di noi": parte di un "parlare"che ci situa nel mondo e presume, in qualche maniera, di piegare a noi il mondo o gli altri, o, per lo meno, cerca di giustificare agli occhi nostri ( e degli altri) il fatto che il mondo ci ha piegato a sé. ( non so se è significativo, ma stavo per fare il lapsus di confondere "piegare"con "piagare"). Ogni qualvolta, cioè, tra atto di espressione, tra forma e contenuto della stessa, tra contenuto dell'espressione e azione performativa si rende evidente un rapporto di intimità e solidalità; in altri termini, quando compare un'eccedenza - la si tocca con mano - rispetto alla lettura che se ne dà, secondo una teoria del segno sì che dubito, a volte, che sotto la dizione di simbolo si comprenda quel che eccede la capacità esplicativa delle teorie semeiotiche.

Per quel che attiene il secondo atteggiamento, definito di prudenza, esso scaturisce spontaneo dalla sensazione della delicatezza del tema: impressione, quella della delicatezza, che fa corpo con il convincimento - in apparenza dissonante - di qualcosa di oscuro, di una drammaticità che l'argomento nasconde, e che sospetto nella connessione del simbolo con parole come irrazionale, mistero, coscienza simbolica, iniziazione, illuminazione, gnosi: termini che ci trasportano - di certo, mi trasportano - ci legano a tempi bui e retrivi: evocano lo sforzo della ragione ad emanciparsi. Il teatro della storia m'appare affollato di comparse, vittime di forme d'integralismo simbolico - religioso o meno - e la scena contemporanea è gremita della comparsa - eccessiva, per i miei gusti - di integralismi prossimi venturi. Questo rapporto tra delicatezza dell'atto riflessivo sul tema e tra drammaticità del medesimo ricorda il nesso delicatezza e fragilità: si illustra sulla delicatezza necessaria nel maneggiare un oggetto di cristallo: cautela, appunto, perché si tratta di oggetto prezioso quanto "fragile", delicato. Lungo la strada della ragione emancipatrice imbattiamo i concetti di demitologizzazione, di desacralizzazione, di laicizzazione quali parametri di civiltà. Non è che la storia moderna non rammenti i limiti insiti in questi processi. Gli "ismi"moderni -illuminismo, positivismo, razionalismo, scientismo, marxismo- son testimoni - e come posso tacere le attuali proposizione di impudichi liberismi - che nessuna garanzia la ragione classica offre a riconoscere e risolvere il substrato mitologico e religioso che si imprime subdolamente anche nella opzione più razionale o "scientifica". Svolgere un discorso attorno al simbolo richiede la consapevolezza che ci si muove entro il perimetro di un dilemma: evitare la perdita di una dimensione simbolica - riccamente intensa, affettivamente appassionata ed utopica - e conservare - affinare - una dimensione critico-analitica dei processi di coinvolgimento illusorio nel simbolo: come sia possibile riconoscere gli usi che il simbolo fa di noi. Discuterne è, quindi, muovere un passo dopo l'altro, con la circospezione di un equilibrista, che procede su un filo sottile, oscillante tra i poli su cui è sospeso: nel caso, tutto il fascino, la ricchezza dell'universo simbolico, da praticare con dovizia e, d'altro canto, tutta la fascinazione, l'incantamento con i quali possiamo essere avvolti, avviluppati illusoriamente in esso. Dire, infatti, come ho sentito in interventi precedenti, che oggi non ci sono miti, né riti, e rimpiangere l'assenza dei riti di iniziazione; dire che si è persa la dimensione del sacro e che si sta male - peggio di prima - per questa perdita, a me pare non rendersi conto che siamo cosparsi, invasi da processi del genere: una storia che, in seguito, vi racconterò, sarà un modo leggero, spero efficace, di dimostrare quel che affermo. Il simbolo è stato presentato come riscatto da un'unilateralità del pensiero - della Ragione - e correttivo ai limiti di una pratica del segno. Ma non posso scordare - e dimenticare di ricordare - che la collocazione economica, sociale e gerarchica, l'universo degli status-simbols si consolidano tutt'oggi tramite una sequenza di gesti ritualizzati (e mimati) e un gioco serrato di processi identificatori, ruotanti attorno a "significazioni"che agiscono come simboli.

Mi rendo conto, per qualche verso - e per il tono emotivo adoperato - di aver già messo piede in tema. Più direttamente vi entro con alcune riflessioni sulla parola "Vertigine". Quando gli organizzatori, per esigenze di programma, mi chiesero di decidere il titolo dell'intervento, mi son trovato in difficoltà; ogni volta che pensavo ad esso, in termini di Vertice e Abisso, faceva comparsa alla mente la parola vertigine, ed era come se non riuscissi a togliermela di testa, a pensare ad altro: ho in qualche maniera subito la parola vertigine. Capisco, oggi, qualcosa dell'operazione che si stava compiendo in me: vertice e abisso agli occhi della mente (o del cuore, non so quale parola sia la più giusta) davano figura a due immagini statiche: "ferme"loro, paralizzato io. Provo a spiegarmi, "lavorando"il termine vertice: se preferite, lasciandomi "lavorare"dalla immagine di una vetta che si staglia imperiosa davanti. Al cospetto della sua grandiosità sta timorosa una mia "piccolezza"; la vetta incombe e di fronte a questa incombenza, in me incombe inevitabile un'emozione, nel senso pieno -nel senso che anche l'etimo rileva- di qualcosa che ti muove e ti spinge a muoverti: di fronte all'incombenza della vetta o ti determini a scalarla o ti allontani da lì: o vai su o vai via.

Non soffro di vertigini, ma due volte mi ha sorpreso ed ho sofferto la vertigine. Forse proprio la novità del fatto m'ha spinto ad indagare cosa mai succedesse. Mi son reso conto con stupore, una delle due volte, che la vertigine scaturiva nell'atto di guardare sia ciò che stava ai piedi del campanile di Pisa, su cui mi trovavo, sia un tondino di metallo che recintava il corridoio esterno del campanile: una recinzione bassa, piccola, sorretta da esili supporti verticali, alla cui vista immediato era stato il pensiero che, se vi avessi poggiato le mani o, peggio, se perso l'equilibrio avessi cercato di sorreggermi, la recinzione avrebbe potuto cedere, ed io precipitare. E' tutto comprensibile: solo che, ad un certo momento, ho provato a toccare e a scuotere la recinzione: reggeva benissimo, ma reggeva anche la vertigine. Mi son chiesto cosa mi succedesse: l’ostacolo di ferro reggeva, ma era basso, e mi rendevo conto - non è vero, non mi rendevo conto di nulla - che era talmente basso che avrei potuto facilmente scavalcarlo. L'idea che potesse prendermi la balzana idea di volare da là determinava la vertigine: l'impulso ad agire improvviso e immotivato, che non riconosco nemmeno mio - anche qui si fa per dire, e su questo "mio"tornerò, perché non avevo voglia ma timore di volare da là - era sufficiente a darmi la vertigine. Mi domando oggi se, di fatto, non soffriamo di vertigini: piuttosto, soffriamo la sensazione vertiginosa di esser presi nella vertigine di passare da un'emozione all'altra; da un'emozione improvvisa e immotivata - di cui non sai il modo per cui è tua - di "cadere"di emozione in emozione.

In questo senso si dà una connessione tra vertice e vertigine. Perché è questo il genere di vertigine che il vertice ti mette addosso. Puoi andar via; puoi scalarlo. Ma se decidi di salire non fai in tempo a dire "Vado", che ti chiedi: "Che ci vo a fare? Val la pena andare su? Come si fa a giungere fin là?". L'atto di decidere di salire è, di nuovo, atto da suscitare una vertigine di emozioni e domande. Lo stesso atto di andarsene, prospettandosi quale occasione mancata, ha esito simile, si apre alle domande: "Perché sono andato via? Non potevo decidermi a salire?".

Ora ho deciso: l'arrampicata è iniziata, e cerchi ansiosamente gli appigli, ti tiri su facendo leva su di essi. Reggerà l'appiglio? Quale appoggi scegli? L'appoggio regge, mi reggeranno le forze fino in cima? Alla domanda: "Chi me lo fa fare?"subentra: "Chi me lo ha fatto fare!". In questo momento mi fo la domanda:"Ciò che descrivo stando di fronte alla vetta quanto è esemplificativo dello star di fronte al simbolo, ad ogni simbolo? In quanto simbolo, il vertice evoca risonanze affettive e spinte al movimento: andar via da lì o andare su da lì, in un susseguirsi di dilemmi che si ripresentano in ogni momento della scalata. Il simbolo, allora, si qualifica per una forte connotazione emotiva: cosa che ti afferra e ti muove e ti fa muovere; che ti prende in modo da assumere in carico la tua progettualità e, assieme, la tua individualità: chi sono? Dove sto andando? Dove comincio o finisco io, e inizia il mondo?

Come è stato detto in interventi precedenti, che è proprio del simbolo mobilitare risposte sensoriali - mi è mancato, invece, il riferimento alla componente pulsionale - l'idea di simbolo rimanda a qualcosa che "ti prende", né ti lascia andare se non a patto che tu te ne vada: che ti metta in movimento. Che ti muove dentro a tal punto da spingerti a muoverti, fuori di te e fuori da te.

Un abbraccio ti trattiene dallo "andare dove pensavi e volevi"e ti sospinge "altrove"da dove sei e dalla direzione che tenevi. In questo l'esperienza del simbolo ha affinità con la Vocazione: qualcuno, ignoto. chiama: un "Dio ascondito"invita a dimettere la tua e a fare la Sua Volontà.

Non so se quel che dico è veramente ciò che si può predicare del simbolo; certo, è vero che se qualcuno mi parla del simbolo, io penso a qualcosa del genere, e di questo genere di esperienza proverò a farne un racconto. Quando dico racconto un'esperienza, so di quale esperienza parlare, ma non, tuttavia, cosa ben dire né come dirla; so dell'intreccio di alcune vicende "da poco", che mi son capitate di recente, giorni fa, la cui significatività consiste nel contenere un'esperienza che, a mio avviso, ha a che fare con il simbolo. L'esperienza può essere in via ipotetica assunta a testimonianza di una procedura simbolica, nel far riferimento ad una o due delle suddette vicende - o fatti o cose, non so decidermi in proposito - così inaspettatamente "accadute", da apparirmi "eventi". Il carattere di "evento"consegue al fatto - o alla cosa? - in virtù degli elementi di eccezionalità che lo contraddistinguono, sia rispetto al mio passato, alle vicende occorsemi fino all'altro ieri, sia rispetto alle aspettative presenti: l'oggi di ieri. Fatti o cose che non sapevo né mi aspettavo. A favore del convincimento che quel ch'è capitato sia un evento, depone anche un secondo carattere delle cose occorse: l'accadimento si presenta con i volti della originalità, della sorpresa e di una non preventivata soddisfazione, e, una volta accaduto e registrato nei suoi tratti, l'accaduto rimane, per quanto conosciuto, casuale: aleatorio, nel senso che poteva non accadere. Il carattere di "eventualità"già annunciato dalla eccezionalità della "cosa", si consolida nell'idea della sua aleatorietà. "Non me l'aspettavo"è detto non tanto in riferimento a qualcosa che poteva capitare, ma non attendevo capitasse a me, ma, in senso più deciso e radicale, di non sapere che si potesse capitare nel bel mezzo di eventi del genere o che tali eventi potessero "accadere".

Le vicende in cui l'evento "accade"sono brevi quanto puntuali; ma questi "punti di evento"si ritrovano dentro una sequenza di episodi né breve né lineare, tanto che mi sono chiesto se, raccontandoveli, dovessi far distinzione tra quali episodi o vicende costituissero il "fatto"- l'esperienza in sé - e quali, invece, le condizioni. Resomi conto che nel procedere alla distinzione tra esperienza e condizioni diverse erano le modalità operative cui ricorrere, e molteplici i criteri di suddivisione da adottare, e che, pertanto, ognuno di essi sarebbe risultato in qualche maniera arbitrario, mi son deciso di affidare agli atti del raccontare - lasciando alle parole "per dire"l'esperienza piena spontaneità - l'onere di discernere tra i motivi del racconto quelli che si danno quali condizioni narrative.

Il racconto.

Per uno degli incidenti che spesso avvengono a chi ha casa, più spesso di quanto ti aspetti- ma, e questo è più stravagante, di quanto poi ti accade di rammentare - avendo una cantina zeppa di cianfrusaglie, ricordi, cose di un tempo che fu - tue, di tuo padre, e su, su per i rami di famiglia, fino ai bisnonni - e dall'aver dovuto sgomberare in fretta e furia, un anno fa, la casa dove mia madre abitava fin da bambina, un tubo - un maledetto tubo - prende a versare. Sono obbligato - proprio sabato e domenica, quando di regola accadono vicende simili - a por mano a spostare il materiale accatastato: era stato portato e depositato in sede in gran fretta e nella più grande confusione, ed ora che ci troviamo tra questo ammasso di mobili, ci muoviamo a fatica tra cataste di arredi, file di quadri, valigie e cumuli di casse una sopra l'altra - le più alte coperte da uno spessore di polvere, le più basse inumidite, alcune fradice per l'acqua versata - ci eravamo detti tra me e mia moglie: "Cerchiamo non solo di salvaguardare la roba dall'umido, ma anche di riordinarla".

"Già che ci siamo"- dicevo a lei o lei a me - "già che queste cose vanno spostate, approfittiamo della disgrazia per disporre il materiale secondo un certo ordine": i documenti di famiglia poniamoli qui, in quest'angolo accatastiamo le valige e le casse che contengono le memorie dello zio, mentre le varie cassette di fotografie le porto nella camera oscura - tengo in casa, nel seminterrato, una stanzetta attrezzata alla stampa fotografica - e i piatti e i quadri, già che siamo al lavoro, dove pensi di metterli? Naturalmente bisognava aprire le casse, una per una, con pazienza e con cura per vedere cosa contenessero: i piatti qui, qua i quadri, là le fotografie, e. . . guardi! Già che sei ad aprire, guardi, e, quando tutto è sotto gli occhi, scartabelli, sfogli, e non ti vien di richiudere. . . almeno immediatamente. Queste son le foto, vanno là. Ormai sei preso nel gioco: ne guardi una, poi l'altra. Osservi, accatasti e, tra un quadro e l'altro, tra fotografie e fotografia si sedimenta una serie infinita di ricordi e di pensieri. Lo stesso per i quadri e gli oggetti: guarda il quadro che la nonna teneva a capo del letto. . o questo qui? Bah! O di chi è? Cerchi nella memoria una parete in cui appenderlo - il posto in cui si sarebbe dovuto trovare, se non fosse tra le mie mani, ma non ritrovi né stanza, né angolo cui si adatti: hai l'impressione che l'oggetto ti resti appena appeso a qualche frase di famiglia: la foto che la mamma aveva perso, quel giorno che chiese a mio padre: "Ma quella foto, ricordi, di quando s'era in Sicilia, con i ragazzi piccoli, dov'è?". Quella statuina ha da essere quella su cui - o era un quadro? - litigavano lo zio e la mamma! "La nonna l'ha lasciata a me!""Ma cosa dici? Se era del nonno, te lo ricordi, la stessa che diceva - quante volte lo ha detto - quando muoio la lascio a mio nipote!".

Ad un certo punto mi son ritrovato a rovistare tra le fotografie; m'ero scordato dei mobili, dei quadri, di ogni altra cassa di documenti, sorprendendomi a tu per tu con una cassettina di cioccolatini inizio secolo, piena zeppa di fotografie. Come prima dicevo, tra fotografia e fotografia correvano ricordi e pensieri. Inizialmente fui colpito da due cose: c'erano fotografie molto vecchie. Scopro le fotografie di due miei trisnonni: le riponevo là, sopra una pila di libri, in evidenza per non dimenticarle. Trovo, anche, quelle dei bisnonni materni: padre e madre della nonna e padre e madre del nonno materno. Tra queste foto dei nonni (i miei), ancora nuove foto dei nonni loro: di nuovo i trisnonni miei. Ricordavo di averle viste, da qualche parte, alcune di esse, e sapevo che si conservavano in qualche altra parte - chi sapeva più quale - dimenticate: sia le foto dei trisnonni che quelle dei bisnonni; una o due credevo di ricordarle: foto-ricordo delle immagini degli antenati. Invece, erano più numerose di quanto sapessi: ogni personaggio più foto, una serie di foto per ogni coppia di progenitori; e queste foto, nella loro scansione temporale, tracciavano come archi di tempo, che lasciavano intuire i lineamenti di una storia perduta; e osservando le figure ri-tratte, i loro vestiti, i cappelli, i monili, e lo sfondo su cui stagliavano, fosse un interno - con arredi dell'epoca, i lumi, i paraventi - o un paesaggio - l'Arno al Ponte di ferro, le Cascine, a fine del secolo - quasi come quando si stampa una foto nuova, emergeva prima indistinta, poi sempre più nitida, assieme alle figure dei nonni una traccia del loro "piccolo mondo antico". Ecco una delle cose che mi suscitava stupore: il prender forma, tra foto e foto, di un'epoca e di una storia dei personaggi. Ed ecco, infine, i nonni: quelli veri, cioè, egocentricamente parlando, i miei: le loro figure, e, poi, quelle dei nonni paterni. Infine, le fotografie più recenti: dei miei genitori, e le mie: quelle, cioè, che mi rappresentano bambino o giovinetto. Facevo strane considerazioni, mentre guardavo le fotografie che mi rappresentavano - questa è la seconda cosa a colpirmi: si classificavano, si disponevamo in varie categorie: c'erano le fotografie che sapevo che c'erano: non sapevo dove erano, se erano state buttate o conservate: ma ne ricordavo il soggetto, chi le avesse scattate, come e quando le avevo riviste, tempi addietro. Poi, la sorpresa: alcune fotografie che non ricordavo mi fossero state scattate. Ma, ora che le vedevo, l'immagine poneva in corsa la memoria a rammentare: ricordo tutto, il volto, sì, l'anno in cui fu fatta, l'occasione dello scatto, chi era l'amico che mi stava a fianco: guarda, guarda, chi se lo ricordava più. C'erano, poi, fotografie che non avevo mai visto, mai! Ma come stanno - mi dicevo - le cose: come, mi si scattano delle foto, le si conservano e non mi si dice nulla? "Datti una mossa - è mia moglie che me lo dice - se ti fai affascinare dalle foto, non si viene a capo del nostro lavoro nemmeno tra un mese!". Convengo che ha più di una ragione: ripongo le foto dove le avevo trovate, questa va nella valigia, l'altra nella cassetta di cioccolatini, e mi propongo di proseguire il lavoro, portando ogni contenitore di foto nel mio studio per consultarmele con agio. Così faccio, ed il giorno seguente, con più tempo, ne riprendo l'esame.

Il giorno successivo son di nuovo al lavoro sulle foto; e le foto, come a rendermi la pariglia, "lavorano"me: scavano la memoria, attirano l'attenzione, scatenano l'immaginazione, danno forma e spessore ad un universo di sentimenti. In tutto questo gioco di immagini, di pensieri ed emozioni la fanno da padrone alcune idee che ruotano attorno ad un tema: cos'è che ricordo e perché? Cos'è che dimentico? Ma veramente ho dimenticato, oppure certi episodi, alcuni fatti non li ho mai saputi? Ho seminato il pavimento del mio studio di tutto ciò che contiene, foto e tengo ogni contenitore aperto, perché non mi sfugga il minimo particolare. Di questo materiale di immagini che mi sta dinanzi e che costituisce la mia storia personale e la storia della mia famiglia non tutte le foto mi son note: paradossalmente ora che le riguardo con calma, di quasi tutte - anche tra quelle che meglio ricordo - mi sfugge più di un particolare: di alcune, più paradossalmente, di queste tracce tangibili ed evidenti del passato non ho memoria; ciò riguarda anche le mie foto: quelle in cui sono ritratto. E come ieri, mi ritrovo ad interrogarmi la medesima domanda: "Ma come mi si scattano delle foto, le si conservano e non mi si dice nulla di loro?". Mi sforzo di ricordare, ma non ne so nulla. Qualcuno un giorno ha preso la mia immagine e non mi ha detto niente! E' un'osservazione che pare ovvia, per la facilità, la probabilità che un caso simile si dia. Chi può ricordare tutto? Ma le foto - penso perché foto dei miei "cari"o foto care perché "mie"- mi proponevano l'evenienza in modo pressante ed inquietante: ovvia, ma non per questo tranquilla: chi decide e perché, cosa ricordi e cosa dimentichi? Sull'onda dell'inquietudine, per un tempo imprecisato - ma non certo breve - mi sorprendo coinvolto nell'indagare il bagaglio di foto diretto dalla domanda: "Cosa ricordi, cosa dimentichi?". E solo dopo un certo tempo capisci che stai classificando le foto tra quelle che ricordi e quelle che non ricordi; ma non è questo che ti stupisce - se non per il fatto che ti sovviene l'arbitrarietà della classificazione - ma il renderti conto che di ogni foto c'è un qualcosa che non ricordi, un qualche particolare di cui non sapevi: cui non avevi fatto caso, e che, ora che osservi e lo noti, di alcuni riconosci la forma, l'ubicazione, di altri non sai nemmeno che sono, e se cerchi di capire, di alcuni rintracci in memoria - tra le parole intercorse in famiglia, in quel dialogo che ricordi tra due famigliari, nei racconti della nonna, per esempio, in qualche citazione - l'orma di una localizzazione, un segno di riconoscimento, mentre di altri non ricordi niente e non sai dire nulla: non saprai mai nulla. Per questo sono inquieto.

Ma a questo primo modo di catalogare le foto, si contrappone un seconda, e lascio immaginare l'intreccio in cui ogni foto cade, tra l'una e l'altra modalità classificatoria. Scorgo le mie fotografie, le piglio in mano e le fisso, mi riconosco: "Bella fotografia"; l'immagine che vedo, che son io, pare che stia dicendomi: "Son qua". La guardo compiaciuto; contento nel rivedermi così come son stato e nell'esser così: così come? D'esser stato così, come mi vedo, o di esserlo oggi? Così in un ieri ed oggi frammisti, senza soluzione, pur nella discontinuità. Non so spiegare meglio: ché quel che vedo esser così, può esser il bambino o il giovinetto che ero - dunque, tanto diverso da come sono - eppure son io, sempre uguale a me stesso. In questo momento ricordo una foto: avrò avuto, sì e no, otto anni: come mi piaccio! Il volto, tutto un sorriso, un grande ricciolo biondo, reso più biondo da un fascio di luce che piove dall'alto su una fronte spaziosa e luminosa, e un occhio - l'altro non si vede - acceso da luce di scaltrezza. Ma - è proprio un ma, perché è un'altra storia - mi ritrovo tra le mani tutt'altro genere di foto: ad undici anni - ricordo benissimo dove fu scattata - mi rivedo bambino triste, un po’ gracile, timido, quanto timido, con gli occhi che fanno fatica a trattenere le lacrime; ricordo che per molti anni non ne potevo sopportare la vista, fin quando un giorno, rivedendo la foto, e chiedendomi: "Perché non lo sopporti? - m'ero risposto: "Basta! Se eri così, ero, sono così!"- fui assalito da una grande tenerezza: divenne, quella, da allora, una delle fotografie tra le più care, e presi a considerare quell'immagine una tessera di riconoscimento della mia identità. Oggi Le voglio bene; mi rendevo conto nitidamente del bene che ancora le voglio quando l'altro giorno la tenevo teneramente tra le dita.

Ecco fotografie, invece, che non mi dicono nulla; altre che, anche oggi, non sopporto. Essendo tante, m'ero detto, i doppioni li getto: e mentre facevo ciò, butto via una foto che, mi rendo conto dopo, non era un doppione; m'era solo antipatica. Ho dovuto ripescarne più d'una, perché la storia dei doppioni era una scusa per distrarmi dalla mia antipatia: in vero, non riuscivo a sopportarle. Ci sono, tra le altre, due fotografie che indiscutibilmente son mie: riconosco i genitori che mi stanno al fianco, il paesaggio - una campagna presso Barcellona, che ricorda il viaggio che feci in Spagna da adolescente - i pantaloni alla zuava, che non avrei mai voluto portare; tutto torna, fuor che la foto: non mi riconosco. Foto che non mi dice nulla o cose cui non risuono: parla un linguaggio muto. Mi son trovato, in sintesi, tra me e le mie immagini, di fronte a tre categorie di foto: immagini che amo, al cui cospetto mi nasce un'emozione favorevole e piacevole; altre indifferenti, che non mi danno alcuna emozione; alcune ostili. Mi è sembrato problema di non poco conto, che avrebbe meritato migliore attenzione, e tanto ne ero - ne sono ancora - convinto che mi sarei messo all'opra senz'altro, se altri avvenimenti non si fossero susseguiti: le foto premevano, infatti, verso altre soluzioni.

E' successo che, trova qui, trova là, t'accorgi che sono diverse e numerose le cassette che contengono foto; alcune di esse, anzi, sono conservate in piccole valige. Penso - non ricordavo tanti contenitori di foto nella casa materna - che in molti casi siano stati trovati pacchi di fotografie nei più disparati cassetti dei mobili, forse, gruppi di foto sparse chi sa in che angolo, e che siano state raccolte alla meglio, per comodità di trasloco, Invece, anche perché alcune erano in cassette datate - cassette di metallo, la confezione di cioccolatini del passato, di cui prima parlavo - altre in cassette porta-liquori, com'era costume di mio padre, erano lì, nei loro contenitori, da tempo; alcune cassette erano chiuse: chiuse dapprima dello sgombero e, se le apri, ti accorgi che ciò che contengono segue una precisa composizione. Tant'è che, verificando il materiale, riconosci la cassetta del bisnonnno; sai quale è la cassetta della nonna e quella del nonno: una era una valigetta - questo forse l'ho già detto - proprio una valigetta, l'equivalente di una moderna ventiquattrore. Quello che è interessante di queste valigette o cassette è che ognuna contiene un mondo tutto "suo", in qualche maniera, chiuso in sé stesso, e diverso dal mondo fotografico di ogni altra cassetta; eppure, nonostante ciò, per più di un verso, passa un'omogeneità tra questi singoli universi di immagini. Ogni valigetta contiene le fotografie dei genitori del proprietario, della sua infanzia, del suo matrimonio, e dei suoi figli fin verso l'età loro di diciotto, vent'anni: poi la valigetta tace; si rinchiude in sé stessa. Non succede più niente: niente di nuovo si presenterebbe - e non lo avresti notato - se non ti fossi imbattuto nella valigetta del figlio: che riprende i suoi genitori, a sua volta, i ricordi del suo matrimonio, la nascita dei figli e le immagini di questi che il genitore segue - e conserva - fino alla soglia dei loro vent'anni. Tantissime valigette, per così dire, cinesi: l'una distinta, sigillata in sé stessa e separata dalle altre, eppure, per così dire, incastrate l'una nell'altra. Una dentro l'altra, per questo le chiamo cinesi: come se ogni cassetta o valigetta contenesse un tempo e questo fosse seguitato da un altro. Grande fascino esercitava la presenza di una storia segmentata, periodizzata in valige: ogni periodo distinto dall'altro eppure in serie: in fila, tempo dopo tempo: un tempo lungo che attraversa quattro generazioni, eppure per quattro volte rigorosamente scandito. Da cosa deriva questa scansione? Dalle valigie e dalle cassette? Potrebbe darsi che sia solo effetto del modo di raccolta del materiale, scandito nei suoi contenitori; posso pensare in termini di causa al costume familiare, all'abitudine tramandata di padre in figlio, di madre in figlia di raccogliere le foto nella maniera descritta - e sicuramente agisce, oltre il costume, la collocazione sociale ed economica della famiglia, che ha sempre vissuto in una pensione, cui ha dato vita con la bisnonna, che l'ha fondata ai primi del secolo, e continuità con le attività della nonna e di mia madre, e che, per abbondanza degli spazi disponibili e per sua mentalità, ha trovato il tempo e il modo di conservare, così a lungo, tutto questo materiale. Certo, tuttavia, che siamo di fronte a precise scadenze: la nascita, l'incontro amoroso, il matrimonio, la nascita dei figli, i figli che crescono e la morte; una morte che assume due volti: la morte della famiglia, quando la famiglia perde i figli, che se ne vanno di casa - forse abitano ancora lì, ma si rifiutano alla fotografia - con cui termina la raccolta di foto, e la morte del proprietario della valigetta, quando la valigetta stessa viene chiusa e passa al figlio in eredità. Eppure le foto di famiglia sono già morte venti o trent'anni prima, quando la famiglia ha perso il suo carattere propulsivo: le foto dei vecchi di casa - nella nostra casa non ci sono vecchi, soleva dire la nonna, solo anziani - se si trovano, le scopri solo nella valigetta dei figli. Nessun ha tramandato di sua mano una foto da anziano: la veneranda età lascia traccia di sé solo nelle cassette dei figli.

A rimarcare la diversità delle foto - la differenza, il senso di partizione tra cassette e valigia, e tra valigia e valigia - contribuisce un altro "fatto": che tra questi avi, annovero un bisnonno ed un nonno che si dilettavano di fotografia. Oltre al contenitore separato, allo stile delle foto, agli oggetti presenti, che segnano un'epoca, alle pose assunte - indici, ognuno di essi, del tempo in cui le foto furono scattate - si aggiungevano i segni della tecnica fotografica: nella cassetta più antica le lastre fotografiche, la stampa in carta d'epoca con riprese a matita e tocchi di colore sui soggetti, che tentano di ispirarsi alla pittura, di mimare il ritratto pittorico; ai primi negativi con stampa su carte camoscio o color alluminio e così, su, risalendo ai tempi recenti; questo ai miei occhi - anch'io ho un passato di fotografo - non solo aumentava il senso di distacco tra il contenuto della varie valigette, ma contaminava l'intreccio tra natura e cultura. Nella fotografia - com'è evidente quando si accostano foto distanti tra loro qualche decina d'anni - il tempo non segna solo i volti dei soggetti: affiora tra le pieghe della natura. Il tempo, infatti, disegna le pose: atteggiamenti che c'erano - alcuni trionfali e pomposi che paiono dire: "Guarda, ci sono! - non ci son più, qualche anno dopo; segna gli oggetti il tempo - presenti in qualche foto, un decennio dopo scompaiono: sono stati venduti, sono accantonati in cantina, si sono rotti? - e segna la materia: le lastre e i negativi, il materiale e le carte di stampa. Un intreccio forte e solido passava, per il corteo delle foto, davanti ai miei occhi tra natura e cultura e tecnica; una trama fittissima, intima e solidale al punto da apparire tanto inestricabile quanto indistruttibile e che, tuttavia si mostrava nella successione delle fotografie, nel tempo - ogni tempo un intreccio, ogni intreccio il suo tempo - fragile, temporanea, caduca, comunicandomi un sentimento di vanità e di precarietà. Qualche foto di quelle vecchie le riconoscevo, solo adesso, nel momento in cui le rivedevo. Altre no; ma ora che m'ero impratichito delle fisionomie dei miei parenti, ero in grado di riconoscere tanto i soggetti - guarda il nonno paterno, questa, non c'è dubbio: è la nonna materna - quanto il genere: questa foto è sicuramente del bisnonno - guarda il colore della stampa, e quel soggetto antico: due bambine che, coperte di una camiciola lunga fino a terra, si bagnano in un fiumiciattolo di campagna, sulle cui rive a fatica si tiene in piedi un esile ponte in legno, tutto sghembo, ; questa è del nonno, invece - è la sua mano - che ritrae un bambino piccolo e biondo che fa le prime prove dei suoi passi, sotto un cipresso alto e nero, in un'atmosfera contadina di un tempo, tenera come tenero è il piccolo, che - a guardar bene, non c'è dubbio - son io che il nonno ha ritratto; quest'altra, è mio padre che l'ha scattata, prima di conoscere la mamma - che solo gli uomini di casa erano fotografi - ad una ragazza, dal volto largo e sereno, che mi piace pensare essere stata il suo primo amore. Dove si saranno fotografati? "Perché la loro storia - ammesso che si possa parlare di storia - non ha avuto seguito?"mi chiedevo, pensando che se quella storia fosse proseguita non avrebbe avuto origine la mia.

In questo giuoco - un gioco serio, e per davvero, dove giuocano curiosità, attenzione, sforzo, trepidazione e divertimento - di riconoscimento di ogni singola fotografia, vengo a disporre di più criteri, per cui quando affermo che questa foto è del nonno, posso intendere che quel signore che vedo in immagine è mio nonno, ma anche - quando, ad esempio, è ripreso un panorama o una figura femminile sconosciuta - dalla configurazione del paesaggio o dall'abbigliamento della signora o dalla "posa" assunta o dalla forma e dalla disposizione degli arredi, che quella foto è dei tempi del nonno; oppure, che è una delle foto che il nonno ha scattato. Nell'alternanza e nella molteplicità dei criteri dell'atto di riconoscimento, muta qualcosa anche relativamente all'individuazione delle singole figure familiari, che acquistano una fisionomia del tutto nuova a me e inaspettata, precipitandomi in una situazione di "evento": cade, ad un certo momento, come tutto d'un colpo - ma ho l'impressione secondo un processo graduale che solo ad un certo momento, d'un colpo, avverto - l'abitudine di guardare i famigliari dal mio punto di vista, cioè dall'orizzonte della mia collocazione nell'albero genealogico: se questa è la bisnonna , era proprio le, la bisnonna - dicevo - la figura che rende me suo bisnipote. Se è il nonno, è il nonno, appunto di me bambino o giovinetto figlio di sua figlia. Ogni figura è familiare nel senso che è connotata dalla rete di relazioni familiari che approda a me. Adesso, invece, dopo il gioco della valigette cinesi, in questo rapido ma inequivocabile passaggio dall'un mondo di fotografie all'altro, mi capitava di osservare la mia bisnonna, con gli occhi con cui presumevo la vedesse sua figlia, mia nonna; ed altre foto osservavo alla maniera con cui mia nonna vedeva suo padre o suo marito, non più come finora consideravo l'una e l'altra figura maschile del bisnonno o del nonno. Vero e proprio evento non solo per la sua novità e la sorpresa, ma per la sua aleatorietà: stavo vedendo quelle immagini e su di esse ricostruendo orizzonti di vita e universi di relazione tra persone, indipendenti dal legame con me, osservandole dal punto di vista di chi non è ancora o non sarebbe mai nato: dal punto di vista di una totale eventualità, di una condizione che, per come sono andate le cose, che annoverano tra loro la mia nascita, è destinata a restare eternamente eventuale. ( che non significa non vera, perché questi miei familiari hanno vissuto gran parte della loro vita indipendentemente da me, e avrebbero vissuto ugualmente la loro esistenza, anche in assenza della mia). E come mi trovavo ad immaginare i singoli familiari che si guardavano l'un l'altro, mi son trovato ad osservare l'abito che indossavano, le scarpe che portavano, le pose che assumevano, il luogo che abitavano; le donne i monili o la foggia dei capelli adottata, attentamente studiava chi, come me, è sempre stato disattento ai vestiti, ai capelli, ai cappelli, a questo genere di cose. Mi son ritrovato a notare gli orecchini della bisnonna ed ad andare a ricercarli nelle foto delle nonne e in quelle di mia madre, curioso di sapere chi mai gli avesse ereditati. La gioia nello scoprire, "sono gli stessi", li riconosco nella foto della figlia, o, al contrario, il patema d'animo nel non ritrovare nelle foto alcuni particolari: un sentimento di perdita, il senso d'una rottura. Né era diverso, con gli arredi, una volta che ne avevo osservato uno, che mi pareva "bello". Non dico la sorpresa e il piacere nel riconoscere sullo sfondo di una foto della nonna un pannello che è lo stesso che fa da sfondo ad una foto in cui mia madre posa, una delle prime volte, assieme a mio padre; quella ancora più grande, provata quando ho riconosciuto la scrivania dove il bisnonno pensoso poggia il braccio destro, impugnando con la mano una misteriosa penna d'oca - chiaramente la sua, parlo della scrivania - in quella che, dopo lo sgombero, ho depositato presso un restauratore: quell'oggetto, ecco, c'è; e il dolore quando, in una foto della nonna adolescente, sul tavolo in cui posa il gomito posa anche un grande vaso di ceramica di Faenza - sapete di quelli tutti colorati, con figure di mostri al collo del vaso e attorcigliati attorno alle anse - che è andato perduto con l'esplosione di via de' Georgofili. Già, perché questo non l'ho ancora detto, le ragioni di quest'accumulo caotico di cassette, valigie, scatole nella mia cantina è dovuto al fatto che con l'esplosione di un anno fa, è stata danneggiata la Pensione Quisisana - la vecchia "Camera con vista", che mia bisnonna aveva aperto nel 1903 - che ha dovuto chiudere i battenti all'età di novant'anni, ed ha costretto mia madre a lasciare la casa che l'ha vista bambina - e perché io no, che tra quelle mura son nato e cresciuto? - e tutto quel che non è andato distrutto, si è dovuto portar via in trafinefatta. Certamente se non ci fosse stata alle spalle questa confusione di cose disperse e confuse, e l'altra confusione che viene da sentirti confuso, vittima della mafia, dell'improbabilità di un gesto imprevedibile prima ancora che inconsulto, se in un botto - è il caso di dirlo - il tempo non si fosse portato via quanto un insieme di generazioni aveva costruito e l'intero capitale di famiglia, io non avrei avuto il senso preciso dell'eredità preziosa di queste tantissime povere e misere cose alla rinfusa accatastate in cantina. I mobili, i quadri, le ceramiche, i monili - gli orecchini della nonna - dove sono? Mi son sorpreso una volta a chiedermi: "Ma questo monile che mia bisnonna porta in questa foto in quale altra lo ritrovo? Cerco tra quelle della stessa mia progenitrice, ma non lo trovo: lo indossa in quella fotografia, ma non si rivede in nessuna della altre sue foto. Cerco, allora, in fotografie di altre donne della casa: "Chi lo ha ereditato?"A capofitto da una foto all'altra, a guardare i colli delle donne di casa, della nonna, della mamma, a cercar traccia del monile. Il monile non c'è: nessuna foto lo ripresenta. Chi sa che fine ha fatto! Del monile non so cosa dire - può esser andato perduto - ho testimonianza diretta, dopo la bomba, di come le vicende del tempo portano con sé tante, troppe cose.

Ma quando è andato perduto? Da quando manca nelle foto conservate oppure da quando non è stato più fotografato; oppure da quando sono state gettate le foto in cui era presente? Mi son reso conto che son tante anche le cose che ci facciamo premura di allontanare da noi: nelle cassette ci sono le foto, ma qualcuno in esse ha fatto una selezione. Come stavo facendo io, gettando le foto antipatiche, qualcuno mi ha preceduto nel compiere una simile operazione. Cosa hanno fatto gli autori di queste cassette? Mi sono accorto che ogni valigetta obbedisce ad una regola, ma una regola che, in generale, è onorata sempre, che siano cassette che siano valige: ognuna, infatti, contiene le foto ufficiali, belle, eleganti, a volte firmate da autori: Brogi, Montabone, Schemboche, credo si dica così, ma ancora più importante di come si dica, è come si scrivevano questi nomi, tutti ghirigori, schiribizzi; poi, le foto di casa trovi, poche, ma carine, conservate - davano, almeno, questa impressione - con amore: le foto buone, mi piace chiamarle; poi ci sono le fotografie indifferenti, che, in genere, giacciono al fondo della cassetta sotto al mucchio di documenti e di foto. Mi sono chiesto ma quelle più brutte, quelle come le mie che stavo gettando via, dove sono finite? Chi le ha buttate? Mi viene ancora da chiedere, nel momento che vi parlo: "Perché si buttano via le foto? "A me stesso spontanea affiora una risposta ovvia, nella sua ovvietà naturale: "Perché non piacciono!"Una risposta che reca, anzi chiude il problema; ma non pare così ovvia se alla domanda precedente si associa quella di: "Perchè, tra le tante fotografie, se ne conservano alcune?".

Domande che fanno pensare; che mi presero per mano e mi portarono ad alcune considerazioni che vorrei comunicare: considerazioni alla buona, ingenue come le domande formulate, che desidererei che trapassassero dalle foto da cui scaturiscono ad un'altra, nuova valigetta di immagini: che, come le foto, costruissero una storia: e come la storia, disegnata dalle fotografie, una storia ad episodi. Valigetta dopo valigetta, dal tipo di valigetta ad un altro, da tipo a tipo di foto, c'è un abisso; valigette, cassette e fotografie, le une e le altre, sono scandite da paradigmi. Eppure i paradigmi si intrecciano vertiginosamente in una storia: c'è nella discontinuità vertiginosa dei paradigmi una coerenza che trapassa in un motivo di continuità narrativa: nella discontinuità c'era - o mi sono inventato esistesse - una continuità. Ma se questa è la storia attraverso le foto - che sono qualcosa che qualcuno ha fissato in immagini di sé e degli altri, ed ha conservato - quale giuoco di immagini hanno lasciato a me in eredità i trisnonni, i bisnonni, i nonni, i genitori? Mi chiedo quali immagini mi abbiano comunicato; quali altre, di tenore sgradevole, m'abbiano raccontato, e quali, ancora più sgradevoli, m'abbiano taciuto. Mi sono chiesto, anche: "Ma avranno avuto delle immagini bellissime, di cui pudicamente e vergognosamente non hanno mai fatto cenno, per scaramanzia magari, ed altre che, invece, mi hanno sfacciatamente proposto a modello". Sicuramente, come è successo per alcune foto, che hanno avuto premura di gettar via - era inutile, forse, in qualche caso, inopportuno conservarle - su molte immagini hanno taciuto. Sicuramente queste considerazioni non mi sarebbero venute alla mente, se accanto alle cassette di foto, non avessi ritrovato altre cassette o valigie, nelle quali chi se ne andava conservava qualcosa di sé o chi ereditava qualcosa del suo genitore: tracce della carriera, fogli di assunzione o di pensionamento, medaglie o segni di eventi che chi prima di morire ha collezionato e chi, sepolto il genitore, ha ritenuto opportuno conservare: c'è traccia di un figlio che litiga col padre in difesa della madre morta, perché, vedovo, si era messo con un'altra donna: e il padre lascia - e conserva -il testamento con cui disereda il figlio e, assieme a questo, tre buste sigillate con su scritto: "Da aprirsi dopo la mia morte". Dopo la sua morte, il figlio conserva le tre lettere senza aprirle: cosa conterranno quelle buste? Cose importanti, se è necessario conservare e non aprire! Il figlio le ha conservate. Non le ha aperte: non dico l'emozione provata nel trovarle. Le ho aperte io. Adesso, io solo conosco il contenuto di quelle lettere. Lo saprebbe, se fosse vivo, chi le ha scritte. Non lo ha conosciuto il figlio; niente hanno saputo nipoti e bisnipoti. Non ho avuto il coraggio di dir niente a mia madre: un segreto che resta e passa tra un trisnonno e un trisnipote, che non si sono mai conosciuti.

Quante buste sono aperte, quante chiuse? Chi aprirà le buste che arrivano chiuse? Questa storia costruita su segmenti di valigette, alcune aperte, alcune chiuse, già da prima della nostra nascita, altre che si aprono durante la nostra vita, altre serrate con la promessa di aprirle solo dopo che i padri son morti, quanto costituisce, quanto e in che modo serve a costruire la propria identità. Chi sono io alla fine di questa storia?

Certamente sono lo stesso che scriveva in occasione del Santo Natale in una letterina conservata nella cassetta di liquori lasciata da mio padre, e contenuta dentro l'annuncio della mia Cresima: "Cari genitori in occasione della Santa Ricorrenza", prendendo impegno solenne di esser più buono nel prossimo anno. In ogni cassetta è conservata almeno una letterina natalizia scritta da un figlio ai genitori: in una ho trovato la lettera scritta da mia nonna ai suoi, in data Natale 1898; qualche anno dopo, divenuta grande e andata sposa, la nonna ha vergato di sua mano la minuta di una comparsa legale e, più grande ancora, ha conservato e la minuta e la comparsa, con cui, dopo essersi separata dal marito, difende la propria onorabilità e la figlia che il marito le voleva portar via. E' una voce che non è mai circolata in famiglia, e che è rimasta sofferente e strozzata entro il tempo di quell'episodio e in un cofanetto che l'ha difesa, tenuta segreta, salvaguardata.

Voci e immagini, parole vergate e figure cancellate, sussurri e segreti, che suggestione questa valigiata di racconti che iniziano, si interrompono, riprendono, mentre altri tacciono - lì per lì pensi: per sempre - ma non puoi essere del tutto sicuro che il loro silenzio sia per sempre. Perché, d'improvviso, come improvvisamente si erano interrotti, qualcuno potrebbe riprendere a narrare. E suggestiva è la storia della valigetta: evoca il viaggio di un uomo che va in giro per il mondo con la sua valigia, fin al momento in cui non ne ha più di bisogno e, come per l'ultimo viaggio, la zeppa delle ultime cose - quelle più significative sul momento - che vengono lasciate in eredità. Qualcuno che ha viaggiato è passato di qua, dimenticando la valigia; oppure, alla fine del viaggio, ha avuto premura di consegnare a qualcuno - proprio a quello - la propria valigia. Ero immerso nell'atmosfera del viaggio, del viaggiatore e della valigia e tenevo in mano alcune mie foto, quando, posato l'occhio su di esse - per questo gioco di valige, di foto, di segreti - mi sono trovato a guardar le mie foto - le ultime valigie datano a quindici anni fa, quasi un ieri, rispetto ad una storia tirata avanti per circa 150 anni - come se avessi anch'io chiuso la mia valigia: a guardarle - e questo è il secondo evento "capitatomi", di cui avevo promesso di parlare - come se fossi trapassato: ero come morto, eppure, scorrendo le immagini, mi riconoscevo nelle mie fotografie. Tutto era come prima: le foto buone restavano buone e mi suscitavano simpatia, allegria, tenerezza; quelle belle restavano belle; quelle insopportabili seguito a non sopportarle, e quelle indifferenti era incredibile come restassero tali: di diverso, quasi un impercettibile niente: il veder le medesime foto con le stesse impressioni, solo come per trasparenza, da una maggiore distanza. Adesso il racconto, quasi fosse lui stesso una delle tante cassette o valige o cofanetti di cui si è parlato, tende a chiudersi in sé medesimo, quasi si fosse fatto chiaro - si fa per dire - ciò che indicavo all'inizio come i due "eventi"della storia: da un lato, questo improvviso guardarsi negli occhi, gli uni degli altri, delle figure dei miei familiari; non più io che vedo e riconosco trisnonni e bisnonni, nonni e genitori, ma tutti costoro che si guardano l'un l'altro nelle relazioni familiari che tra loro passano tra loro - non solo ed esclusivamente attraverso di me - e che guardano, ognuno, il tempo a cui è appartenuto; dall'altro, il secondo "evento", nel quale io guardo nelle mie foto non con gli occhi miei, e mi vedo con gli occhi diversi di un me defunto, che guarda da lontano, vede senza la prossimità con la quale in genere mi vedo e, certo, mi son visto. Se preferite, con gli occhi - ora che sono morto - di uno dei miei figli che guarda le immagini che di me restano, ma, tuttavia, mi vede come mi vedo. Ed ora che accosto i due "eventi", solo in questo stesso momento comprendo la vicinanza tra loro: da una parte, vedo le figure di coloro che sono stati i miei familiari da un punto di vista che precede la mia nascita: sono un osservatore che "non è ancora nato"; dall'altra, mi sorprendo a osservare le mie foto come chi "è già morto". Tra il non esser ancor nato e l'esser già morto, il racconto finisce, perché lo spazio emotivo in cui mi trovo - questo "bilico"tra non essere nato ed esser morto - pare appartenere ad un'altra storia.

L'epilogo.

Lasciando aperto il problema se il racconto abbia o no a che fare con il simbolo - con l'attività e l'atteggiamento simbolico da assumere di fronte a "segni"particolarmente significativi - ma parlando come se avesse qualcosa da dire in proposito, fatta una concessione alla mia formazione junghiana, propongo alcune considerazioni. Il racconto, a mio avviso, intreccia in più punti- e questi intrecci si condensano in motivi narrativi - le tematiche che il corpus junghiano riferisce alla nozione di Ombra. Per questa strada, il simbolico è nel racconto prospettato nella luce dell'Ombra. L'Ombra è "l'hic Rhodus"in cui il discorso mette alla prova il simbolo, e, a sua volta, si mette alla prova: misura la propria capacità a saltare gli ostacoli che l'argomento presenta. Quando gli junghiani entrano nel tema del simbolismo, non possono prescindere dalla nozione di archetipo; ma, in genere, tendono ad assumere quale riferimento quell'archetipo maior, quella predisposizione "forte"che è del cosiddetto Sé e, contestualmente, ad adottare quale schema di riferimento l'idea, corrispondente al significato riconosciuto all'archetipo, di personalità sovraordinata all'Io. Errore comprensibile, perché l'archetipo del Sé rappresenta il punto di arrivo o il fine ultimo di integrazione armonica della personalità, nella quale l'Io si ridimensiona nel ruolo di "parte"organica di un tutto ed agisce quale semplice componente del medesimo. Il Sé - convinti con buone ragioni, che il fine è ciò che racchiude il senso (ultimo e risolutivo) di un'esperienza - si rappresenta con immagini "compiute"ed armoniche: senza ombre, a loro modo perfette. Ne sono esempio le figure mandaliche, nelle forme armonicamente "composite", nelle loro geometrie: il cerchio, il quadrato suddiviso in parti simmetriche, le figure geometriche tanto complesse e articolate quanto ordinatamente composte. Queste belle "figure"fanno tornare alla mente il gioco di immagini d'un caleidoscopio: ne ho avuti più d'uno, da ragazzo, di quei cilindri che, se alzi un estremo contro luce e poni all'altro l'occhio, compongono nella sezione circolare della luce immagini colorate e complesse, ordinate nella simmetria delle parti; fantastico è che, se ruoti il cilindro, la figura cambia in una varietà senza fine. Se ben ricordo, però, se dopo averlo ruotato lo tieni leggermente inclinato da una parte o dall'altra, quel che vedi nel tubo ti spiega come le figure armoniche siano in realtà composte di schegge, detriti, angoli, punti di diversi colori elementari, e che, solo in posizione perfettamente orizzontale, per il gioco di specchi che il tubo contiene, qualsiasi accumulo di frammenti casualmente composto si rispecchia in una simmetria: si placa in una figura perfetta. Il discorso sul caleidoscopio, quale metafora del Sé, è una sorta di "memento": "ricorda, uomo"- rammenta - che il Sé indica un processo di cui disegna il fine, e che si inaugura con l'incontro e il confronto con la figura dell'Ombra: ad una composizione in unità del "molteplice"allude e tende il Sé, rispecchiamento di identità multiple; molteplicità delle identità implicita nella presenza e nella tensione dell'Ombra - pur nella costanza della conflittualità con l'Io - moltiplicata dalla presenza e dalla tensione dell'Anima, nella mobilità degli "umori"e del gioco delle immagini che rappresenta, nella sua sensibilità relazionale alla mutevolezza delle situazioni spaziali e delle condizioni temporali; rispetto alla sua origine "ombrosa", il Sé si configura nucleo organizzatore della "simmetria"dei frammenti dello psichico, dei detriti che il passato ha depositato nella memoria, delle schegge di quel legno ritorto che l'uomo è. Ostacola simile consapevolezza - e fa il gioco della rimozione - l'idea di tempo come sviluppo lineare per cui l'inizio di un processo è la prima mossa; l'aure di qualcosa che, una volta messa in moto, supera e lascia dietro di sé la fase iniziale: detta appunto così, perché è del processo soltanto l'inizio. Se, invece, prendiamo le distanze da questa concezione del tempo - ma è compatibile questa accezione con la struttura archetipica della natura? - e consideriamo l'incontro con l'ombra un'inaugurazione - non una fase d'inizio, ma un'iniziazione - allora esso si configura quale momento "inaugurale": in qualche modo, "augurale". Il processo integrativo del Sé, infatti, non è un processo lineare e progressivo, ma un procedere per salti, per ristrutturazioni, ognuna delle quali evoca ed invoca il confronto con l'Ombra. Il lavoro con l'Ombra - e il lavorio dell'Ombra - non è qualcosa che si possa pensare di abbandonare alle spalle, superata la quale, si dice - e si può credere - che non rimanga che incontrare l'Anima - questa sì, che è una bella esperienza - poi il Vecchio Saggio, ricco di consigli, buoni e sapienti, fino a risalire un vertice al cui apice incontri il Sé. Non dobbiamo scordare che lo sviluppo della personalità, il processo di individuazione porta con sé - dentro il Sé - i segni dell'irriducibilità dell'Ombra. Dell'origine della coscienza - dell'incontro con l'Ombra - si può dire quel che si dice del peccato originale: consustanziale all'uomo, è costitutivo della natura e dell'esperienza umana.

A questo punto debbo fare qualche concessione a chi poco o nulla sa di Jung. Non posso proseguire nel parlare di Ombra senza spendere su di essa qualche parola: senza offrirne una traccia a chi non la conosca. Compito che assolvo e volentieri, perché utile anche a chi dell'Ombra ha più di un'idea; né parlo a vanvera, perché in proposito circolano idee diverse, e non è detto che ciò che dico e penso dell'Ombra trovi tutti concordi: chi non lo fosse potrebbe, ascoltando le mie parole, fraintenderle.

La nozione di Ombra - come gran parte delle nozioni introdotte da Jung - ha carattere descrittivo-fenomenologico: prende forma principalmente sulla fenomenologia di ciò che rappresenta, ed essa stessa, più spesso, si presenta sotto la specie di un "losco figuro"che si è messo in testa di sottrarti i valori in cui credi e ti mette nella condizione di trattarlo con la medesima moneta: di far quadrato attorno ai valori personali e di considerarla puro "luogo", semplice deposito di tutti i disvalori possibili: di ogni sentimento che provi, di ogni atto che tenti - che siano, sentimenti o atti - in sospetto di tramare contro i valori condivisi dall'Io, di oscurare la luminosità della coscienza. E tanto più è respinta a lungo e a puro "luogo", inerte deposito di impurità, tanto più l'Ombra si fa personaggio: assume il volto, sempre più losco, del figuro che vuole la sua parte. Questa ne è la figurazione personificata - antropomorfica - ma altre figure possono insorgere a rappresentare l'Ombra: vi riesce una figura animale, un oggetto, un frammento qualunque di realtà, purché di tonalità "inferiore"- un atteggiamento "indecoroso", un frammento "indecente"del corpo umano, meglio ancora un residuo di materia "bruta"- un sasso, una manciata di fango o di polvere, un luogo più basso: l'Abisso medesimo, per restare in tema. Tramite queste figure si insinua - e se è un frammento, è un scheggia che penetra come un cuneo - nel cuore della personalità, oppure, se riesce a personificarsi, costituisce una vera e propria "doppia personalità": la nota e discussa figura del "Doppio", che vuole la sua parte: parte di che? Di tutto: di espressione, di manifestazione, di vita: del diritto a vivere o del vivere un diritto, parla l'Ombra, se con tale espressione riesco a dar immagine e a comunicare la drammaticità della tensione che rappresenta.

Se son riuscito a renderne una prima, suggestiva idea, procedo dicendo dell'Ombra altre due cose: la prima, una definizione, per la quale quel che ho esposto nella sua fenomenologia può esser detta una "disposizione a rappresentarci l'opposizione tra tutto ciò che non è nei nostri valori e non corrisponde alla nostra identità, ed i valori costitutivi della coscienza e delle immagini dell'Io". Ritornate un attimo alle immagini delle fotografie; immaginatemi composto da una dozzina di esse: tre belle, in cui tutto bello mi vedo, quattro simpatiche - in cui mi sono, per l'appunto, simpatico - altre cui voglio bene: che mi fanno tenerezza, tanto quanto tenero mi ritrovo in esse; altre, invece, quando le guardo, non mi riconosco nelle immagini che mi ricordano, e finisco col chiedermi :"Ma questo chi è?"; altre, infine - due-tre-quattro? - che non posso nemmeno vedere. Vorrei che non fossero state scattate e se mi capitano tra le mani, faccio fatica a non gettarle via. Esempi tangibili di quell'idea incompatibile, di cui Freud per primo ha parlato, ma che, sempre secondo la concezione freudiana originaria, non sono solo imago, figurazioni statiche, ma immagini vive: attori recitanti per cui se l'Ombra assume la forma e la "parte"di un animale, morde; se di una palata di fango, macchia; se di un losco figuro, trama e aggredisce: mena e fa male. Ma la nozione non la si comprende nella totalità dei suoi significati, se non la si coglie anche nella funzione che svolge. Dell'Ombra si parla a proposito di aggressività, di narcisismo, di perversioni: cosa può far di meglio - o non è il caso di dire: di peggio - un losco figuro? La sua "azione", tuttavia, solo agli occhi dell'Io, cui si contrappone, ha questa negatività; di fatto, per Jung, la funzione dell'Ombra è, invece, compensatoria. Difficile all'Io vedere questa funzione di compensazione con occhi obiettivi: nella sua parte, nella sua identificazione con i valori che lo fondano, l'Ombra appare all'Io l'inevitabile ricettacolo di ciò che non ha valore - le cose, gli atti cattivi, seducenti, perversi - o l'inesorabile "nemico"del mondo dei valori: l'universo dell'aggressività e del caos. Agli occhi dell'Io l'ombra è inaccettabile, in quanto irriducibile ai valori in base ai quali ha costituito la propria coscienza e per i quali si radica nel centro della coscienza medesima. Ma, se per Jung la funzione dell'Ombra è compensatoria rispetto all'Io, oltre la prima impressione che l'io ne riceve, ciò che l'0mbra aggredisce è la supremazia dell'Io, non tanto i suoi valori: la loro prepotente esclusività e l'identificazione assoluta con essi. Ma se questo è vero, l’Ombra non appare alla luce costituendone esclusivamente il lato negativo. L'abituale, scontata sovrapposizione della polarità luce e Ombra a quella positivo e negativo - per cui il positivo è la luce e il negativo è l'ombra - si scardina: la polarità positivonegativo ora vive all'interno di ogni singolo polo della tensione luce ed ombra: ti conduce allo sforzo di vedere - e ti sovviene - il negativo della luce e la positività dell'ombra. C'è del marcio anche nella sola dimensione della luce, là dove si predica, si esalta il valore della visione "chiara e distinta"e della visione dall'alto, del "punto di vista superiore": lo sguardo tanto luminoso che "panoramico".

La luce non sempre fa vedere: spesso abbaglia; la visione dall'alto, lo sguardo panoramico abbraccia la globalità della visione, ci fa veder tutto e tutto assieme, fuorché i particolari; perde il dettaglio. E nell'Ombra cosa si vede? A prima vista nulla, ma provate ad abituare gli occhi alla penombra, fatevi gatti - non è la felinità un'Ombra? - e conoscerete lo spessore che le cose trovano nella visione quieta e pacata, rilassata e felpata delle ombre loro: certo si vede più chiaro a mezzogiorno, ma osate affermare che non si vede niente - o quel che si vede non ha significato - al tramonto? Guardate la vostra casetta dalla collina che la sovrasta: che visione chiara delle relazioni con l'ambiente, che prospettive si aprono allo sguardo: nuove e significative. Ma vi verrebbe mai il dubbio che la visione panoramica renda superfluo il fatto di abitare la casa, di potervi accoccolare tra le sue quattro mura? Non aggiunge niente, stando tra le mura di casa, sorprendersi a guardare quell'angolo e a cogliere in uno sguardo minuto quei quattro oggetti che l'angolo - proprio quello - raccoglie?

Se avessi fatto il viaggio attraverso le fotografie, le stesse di cui v'ho parlato, trovandole in un inserto ordinato - qui le foto dei trisnonni, poi quelle dei bisnonni, e così via dicendo - archiviate secondo un ordine, non avrei incontrato l'esperienza trovata: è il caos in cui le ho scoperte, la loro periodizzazione "da valigetta a valigetta", le tranches di vita legate alla morte dei miei cari, sono le eredità contese, i segreti di famiglia ad essere stati la culla dell'esperienza: i motivi in cui il racconto dell'esperienza si riconosce e si dipana. Non la visione dall'alto, non la frequentazione di un archivio ordinato garantiscono di vedere tutto o meglio. Possiamo riuscire a considerare il luogo chiuso e oscuro dell'Ombra non tanto un carcere, dove l'angustia dello spazio e le tenebre del luogo impediscono di muoversi e di vedere, ma una cella monacale : una distanza dagli influssi pesanti, pressanti e incessanti e contraddittori del mondo e dei suoi illusori valori. L'Ombra appare, allora, quel luogo appartato, il riparo dove sono conservati e salvaguardati valori o percezioni o sentimenti o atti che se cadessero in balìa dell'Io - se l'Io li incontrasse prima del tempo - andrebbero distrutti, annientati.

Se tutto questo è vero, ne consegue una decisione gravida di numerosi e significativi effetti. Nel contesto psicologico quella parola chiave - ma anche la pratica psicologica relativa - che è l'identità, l'intero discorso che su di essa si formula in termini di ricerca dell'identità, dell'unicità e della forza dell'Io, che paiono essere, a volte, il motore, altre il fulcro di ogni possibile sviluppo o adattamento o maturazione della personalità - l'identità in cui, ironia dell'etimo l'individuo ( come chi non è diviso in sé stesso) si riconosce - vacilla, e si apre all'idea di un'identità molteplice. Qualcuno si domanderà: "Perché molteplice? Caso mai, duplice, secondo la tensione tra l'Io e l'Ombra!". No! Questa tensione allude ad una molteplicità delle identità - una sorta di identità caleidoscopica - che entra in scena dalla porta della duplicità, su cui "vigila"l'Ombra: che è come la soglia da varcare, e sta tra ciò che è e ciò che non è, tra ciò di cui si sa e ciò di cui non si sa ( o non si vuole sapere), tra ciò che è legittimo e ciò che, al cospetto di criteri di legittimità, appare sconveniente, "incompatibile". Varcata la soglia tra compatibilità e incompatibilità, il molteplice aggredisce l'identità. Ed è qualcosa che non si limita alla rappresentazione degli oggetti dell'osservazione e della riflessione in psicologia, ma investe anche il metodo, l'episteme psicologica ( con un discorso che si estende per contiguità a ambiti non esclusivamente psicologici). Perché la problematicità che avvolge il termine identità, investe anche quello di verità: c'è una verità e una sola? E' la verità proponibile in termini di identità tra la proposizione (vera) e la cosa ( che rappresenta come veramente è?). La verità è o si dà? La verità è qualcosa che sta in una valigetta, e "chi cerca, trova"? O non piuttosto qualcosa che - seguendo il racconto fattovi - sta e in questa e in quella valigetta, oppure e in questa e in quella cassetta e in mezzo tra loro? Posso immaginare l'indagine psicologica come un 'attività che si esaurisce nella ricerca, nel ritrovamento e nell'apertura di valigette disperse in una cantina, e nella descrizione del loro contenuto? Lascio al dibattito un bel mazzo di quesiti e la seguente affermazione su cui discutere: la verità psichica non è una, e nemmeno è: si declina e si delinea nei progetti con cui la persona si relaziona al mondo.

Ma il fiore più inquietante del mazzo è onestamente ammettere che quando invochiamo la verità, nei termini di "corrispondenza della proposizione alla cosa", non proponiamo nient'altro, spesso, che l'adeguamento dell'espressione a quel che è il principio nostro ispiratore. Riteniamo, ad esempio, con incredibile credulità, quando predichiamo verità inoppugnabili, affermiamo verità di tale valore per cui non possiamo non condividerle - come solidarietà, fratellanza, libertà, uguaglianza, individuazione, maturità, sviluppo - che, come in un caleidoscopio, esse, parti d'una sola e grande Verità, si depositino una a fianco dell'altra in tacito ed armonioso accordo. Se non fosse così? Se ognuna, invece, trovasse in ogni altra un limite definitorio: un'irriducibilità? Se questa loro presunta armonia costituisse un'illusione caleidoscopica? Me lo sentivo - l'avevo anticipato - che si trattava di argomento delicato, "fragile", che esigeva un atteggiamento prudente, cauto: un atteggiamento che, per "simpatia", evoca le parole che, riguardo all'accostamento alla tradizione, alla frequentazione del linguaggio ordinario e comune, alla loro riattualizzazione in ognuno dei nostri discorsi, Vattimo e Rovatti rispettivamente usano di "pietas"e di "pudore".

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