L'individuo  potenziale

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Tutta l'esperienza dell'uomo si muove secondo un processo di accrescimento e consapevolezza, riguardi esso il corpo o la mente. In ogni fase dell'esistenza il corpo si forma, si sviluppa, le sue cellule continuamente nascono e muoiono; tutto segue un ritmo trasformativo.
La mente acquista, durante tutto l'arco della vita, informazioni che le permettono di mantenere l'individuo in un rapporto omeostatico con l'ambiente che lo circonda; l'uomo inserito in questo scorrere dell'esistenza si è sempre sforzato di capire il perché della sua vita, del suo esistere e in questo sforzo di capire ha tentato di dare dei nomi alle cose, pur rendendosi conto che una realtà altra continuava a sfuggirgli e che le spiegazioni che gli venivano fornite dalle sue scienze erano sì esatte, ma non complete. In fondo egli ha percepito un mistero che non riusciva a spiegare, e che ha sempre tentato di indagare attraverso la stesura di regole che gli fornissero un cammino certo e gli garantissero il risultato finale.
Alla fine di ogni percorso c'è sempre stato un premio per cui sembrava valesse la pena correre; la conoscenza, il potere, la santità, la pace sono tutti obbiettivi che fanno affannare l'uomo da secoli per la loro conquista, sono mete da tutti riconosciute importanti che hanno perso il loro significato individuale.
L'uomo combatte per conquistare dei fantasmi che gli possono dare sì la dimensione della sua vittoria, ma non del suo valore. Ma altrettanto difficile è il mantenimento delle mete conquistate; per ottenere ciò si toglie dalla nostra vita tutto quello che possa in qualche modo minacciarla e da quel momento in poi il percorso è finito, cristallizzato.
In fondo quale è il vero compito della nostra esistenza?
"Compito dell'individuo è quello di realizzare se stesso", dice Jung obbligandoci a riflettere.
Con la riflessione affiorano nella nostra mente modelli realizzativi standardizzati che senza dubbio ci rimettono nella condizione iniziale; ma, oltre alla possibilità di riflettere, Jung ci offre anche una strada da seguire, un percorso senza mete prestabilite dove gli obbiettivi realizzativi esterni sono sostituiti dalle potenzialità che ogni individuo conserva celate dentro di sé, come se fossero attitudini da nascondere.
Il mondo in cui siamo inseriti è la base di partenza della nostra esperienza e da questa bisogna iniziare.
La medicina, la religione, tanto per rimbalzare da un estremo all'altro, non rappresentano in sé verità assolute dal momento che una si occupa del corpo e l'altra dello spirito; sono punti di vista che offrono una visione parziale dell'individuo. Possiamo avere una idea abbastanza reale del mondo che ci circonda solo attraverso tutte le visioni comprese all'interno degli estremi citati. In questo senso, la realtà sta nell'integrazione delle parti e non nella separazione anche se questa fase è indispensabile per la conoscenza.

La medicina infatti, attraverso le sue esasperate specializzazioni vede "l'unità uomo" come la somma dei suoi singoli organi, come un fegato, un orecchio, un muscolo, ma, pur raggiungendo in tal modo livelli altissimi di sapere, non riesce a reintegrarlo in una unità.
Dall'altro versante la religione che parla solo dell'anima dell'uomo perde di vista il suo corpo, lo tralascia così come la medicina ignora lo spirito.
L'uomo, dilaniato da questa dicotomia, continua a curare a volte una parte a volte un'altra, e non riesce a vedersi come un'unità psicobiologica che per funzionare ha bisogno di tutti i suoi livelli. Parlare di disturbo psicosomatico, ancora oggi, mette la persona in un'angoscia da mancanza di diagnosi certa e lo fa sentire impotente.
Ritornando al percorso che avevamo intrapreso, l'essere umano, che capisce di essere stato contenuto in un mondo diviso fra spirito e corpo, fra ragione e sentimento e che si faccia carico di questa frattura fino al punto di rimetterla dolorosamente insieme, si trasforma in "individuo" che etimologicamente significa "non diviso".
Individuo allora è colui che si distacca dal contenitore collettivo e attraverso la "differenziazione" tenta l'integrazione delle sue parti e accetta che questo stato non sia definitivo. In questo senso egli ristabilisce lo scorrere degli eventi e l'accadere dei fatti, il mutare delle cose e si avvicina al mistero che lo interpella celandosi alla sua vista.
Un percorso implica una partenza, un abbandono, un lasciarsi andare, un'avventura ed ecco che l'individuo incontra, all'inizio del sentiero, o del "sentire", la paura e il dolore; il mistero lo chiama e il senso del distacco lo fa indugiare: questo è il momento in cui si può parlare di sofferenza psichica e di eventuali disagi fisici. Il sintomo è la rappresentazione del conflitto, dell'esitazione; il segno ha l'opportunità di diventare simbolo e il sintomo limitante ulteriorità.
Simbolo, parola che deriva dal greco sum-bàllein che significa mettere insieme, porta in sé il senso dell'antica usanza greca di tagliare in due un anello, una moneta e di darne una metà ad un amico o ad un ospite. Questa metà chiamata simbolo e conservata dall'una e dall'altra parte, di generazione in generazione, consentiva ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Il simbolo viene a rappresentare il rimando ad un'altra metà che non ha altra funzione se non quella di completare ciò che noi abbiamo.
Assumere un "atteggiamento simbolico" quindi vuol dire essere tesi al ricongiungimento di parti divise e la sofferenza dell'essere umano rappresenta il bisogno di questa unione.
Chiunque abbia esperienza di lavoro psicoterapeutico è in grado di riconoscere questa tensione al ricongiungimento nei racconti dei suoi pazienti.
La psicoterapia simbolica ha il compito di non fornire soluzioni, che renderebbero vana la tensione, ma deve indicare possibilità di unione di aspetti interni che conducano sempre ad altro e che restituiscano all'uomo la possibilità di mutare.
Jung in una conferenza del 1932 dice: "... il bene è sempre nemico del meglio. Saremmo davvero folli se non ci attenessimo all'antico bene fino a che è possibile (...) Purtroppo un bene non è eternamente tale, perché altrimenti non ci sarebbe niente di migliore. Perché giunga il meglio, il bene deve cedergli il passo".
Quando si parla di distacco si intende l'atteggiamento critico che l'essere umano deve avere nei confronti dei modelli realizzativi forniti dalla vita comune e indicati come bene. Pensare al bene in termini soggettivi individuali realizzativi è molto diverso che pensarci secondo il flusso collettivo.

Come dicevamo l'abbandono di queste forme preconfezionate provoca, come in tutti i distacchi, esitazione e dolore, ma siccome nel processo simbolico nulla avviene se l'altra metà non è presente, da una parte, l'individuo subisce una perdita, dall'altra ne acquista in consapevolezza che altro non è che una visione più completa di sé.
In tutte le epoche l'uomo ha tentato attraverso viaggi mitici questo ricongiungimento con una sua completezza-simbolo; si è dovuto sempre scontrare con modelli ed ideologie che hanno con la loro influenza trasformato il simbolo in segno, e che hanno costretto l'uomo a desiderare di diventare solamente ricco, potente e sapiente, ma non consapevole.
L'essere umano che ha orecchi solo per il collettivo e non riesce ad ascoltare la sua voce interna che gli indica il percorso da fare, si dimentica della sua unicità.
"Tuttavia, anche in questa condizione di socialità inconscia, a non pochi accade di essere chiamati dalla propria voce interiore; allora essi diventano immediatamente diversi dagli altri e si sentono posti di fronte ad un problema che gli altri ignorano".
Se da un lato avere un problema che gli altri non hanno o essersi fatta una domanda che gli altri non si sono posta ci rende unici, da un altro versante ci rende diversi e non sempre il piacere dell'unicità compensa il disagio della diversità, che nella nostra società è additata come una colpa.
Assumendosi questa unicità-diversità, l'uomo parte per il suo viaggio simbolico attraverso il caotico indifferenziato. In questo percorso verso la consapevolezza egli incontra prove difficili, mostri, nemici di ogni genere che tentano di impedirgli il passo; ma al di là dei mostri mitici e dei "guardiani della soglia" questo uomo-eroe ha un grande nemico, il più implacabile, che non lo abbandona mai: se stesso.

è più facile combattere i draghi che combattere se stessi, infatti l'io non a caso è titubante e alla ricerca di rassicurazioni nel momento dell'avvio del processo di individuazione. Egli sa che durante il percorso verrà in contatto con aspetti di sé, della sua psiche profonda, estremamente primitivi e distruttivi nella loro aggressività.

"La psiche è una potenza molto più forte di tutte le potenze della terra".

Nel suo percorso l'individuo rischia di rimanere irretito e posseduto dalle sue componenti inconsce autonome che lo possono gestire come personalità alternative, ma non autentiche. L'io è giovane e come tutti i giovani è esuberante, ma le prove della vita lo temprano e lo rendono più consapevole del fatto che "..l'aver pensieri fu una realtà anteriore a quella in cui l'uomo poté dire sono consapevole di pensare".
L'io nella sua lotta con il drago non si può permettere solamente di ucciderlo, deve cibarsi del suo cuore. Cioè deve ucciderlo per differenziarsi, e cibarsene per integrarlo nella sua essenza più profonda. Il drago appare nella simbologia talvolta come un rappresentante del male, talvolta come severo guardiano di grandi tesori, per avere i quali l'uomo deve sconfiggerlo; esso è la rappresentazione dell'ombra che l'io deve affrontare, elaborare e assimilare per poter acquisire consapevolezza.
L'ombra, come componente rimossa della personalità cosciente, rappresenta "ciò che uno non vorrebbe essere", eppure la sua funzione è determinante nel processo di presa di coscienza individuale.
La nostra società, con la sua pretesa razionale di spiegare scientificamente tutto e di sapere a priori ciò che è giusto o sbagliato e di definire con certezza il bene e il male, sembra fatta apposta per l'allargamento dell'ombra. In maniera sommaria si può affermare che il collettivo ha la tendenza a far scivolare nell'ombra tutte le vocazioni individuali dell'essere umano; ogni diversità, di qualsiasi genere sia, che turba le certezze dell'io, sia questo individuale o sociale, è destinata ad essere rimossa e di conseguenza ad ingigantire il lato oscuro dell'uomo.
"Ognuno di noi è seguito da un'ombra e meno questa è incorporata nella vita conscia dell'individuo tanto più è nera e densa".
L'uomo che si senta seguito da questo fantasma non vuole dialogarci, anzi lo trasforma in una rappresentazione maligna che lo tenta, che lo disturba e può addirittura implorare la divinità perché, con il suo intervento, lo liberi da questa scomoda presenza in modo definitivo.

La lotta fra morale e natura, fra ragione e istinto consuma le migliori energie dell'uomo che se motivato "sa assumersi la responsabilità di cose incredibili (...) Se le tendenze dell'ombra, che vengono rimosse, non rappresentassero altro che il male, non esisterebbe alcun problema. Ma l'ombra rappresenta solo qualche cosa di inferiore, primitivo, inadatto e goffo e non è male in senso assoluto. Essa comprende fra l'altro delle qualità inferiori, infantili, primitive, che in un certo senso renderebbero l'esistenza umana più vivace e più bella; ma urtano contro regole consacrate dalla tradizione".
Ci si può accorgere come la vocazione individuale sia in contrasto con la tradizione di cui parla Jung.
Normalmente il termine vocazione è usato per definire la chiamata che una divinità rivolge all'uomo perché scelga la via religiosa. Anche nel processo di individuazione si parla di religiosità a cui l'uomo è chiamato, ma nell'accezione di "religare" - collegare strettamente - che fonde, in questo senso il termine religioso con simbolico. L'atteggiamento religioso diventa allora non seguire le regole di una credenza rituale che parla di spirito, ma seguire direttamente lo spirito che parla attraverso il linguaggio simbolico. In questo atteggiamento religioso "... si riconosce l'uomo che è pervenuto alla consapevolezza dei limiti assoluti dei linguaggi dati, soprattutto quelli che appartengono alle categorie semiotiche, segniche razionali; che usa i simboli sapendo di esprimere un non dato che rinvia ad ulteriorità non situabili nello spazio-tempo conscio. (...) L'esperienza globale dell'uomo è immersa, lo voglia o no, in un mondo naturale, noto e ignoto, in un universo di prove personali e transpersonali, psichiche e transpsichiche, immanenti e trascendenti dove tutto può convergere o divaricare."

Le regole razionali che l'uomo ha messo sulla sua strada, riti compresi, si sono trasformate in gabbie che lo trattengono e lo isolano dalla percezione di una misteriosa ulteriorità. Le religioni con il loro monumentale apparato di regole dogmatiche riescono a mala pena a contenere il comportamento dell'essere umano, non certo il suo bisogno di spiritualità. L'uomo per uscire da questa prigione segnica ha ri-creato riti magici che lo hanno illuso di poter conoscere quella parte segreta da cui si sente animato; ma, fuggito dalle religioni, si è trovato difronte ad una magia a cui ha continuato a chiedere regole di comportamento.

Il mistero si è tragicamente trasformato in metodo.

In questo caso sia il mago, che il sacerdote diventano i custodi del limite sacro, gli "unici autorizzati ad avere rapporti con il numinoso; questa delega di potere fa nascere la frattura, dolorosa per l'umanità, fra sacro e profano". L'uomo delegando ad altri autorizzati il colloquio con il divino si desacralizza rimanendo immobile, prigioniero del mondo della razionalità.
I miti che fino a quel momento lo avevano sostenuto ed arricchito si svuotano di significato e tutti i simboli che lo avevano definito homo religiosus, si trasformano in segni vuoti di affettività.

"Il sacro non è un momento della storia della coscienza, ma un elemento della struttura della coscienza", e "nessuno guarisce veramente se non riesce a raggiungere un atteggiamento religioso". Tutto questo ci fa pensare che in illo tempore l'uomo attraverso i miti o la visione di ierofanie fosse dal punto di vita psichico in contatto con se stesso.

Secondo Hillman "L'archetipo permeava gli eventi raggruppati sotto di esso e il potere numinoso delle figure divine conferiva a qualsiasi fatto venisse accolto nelle stanze della mente una carica di valore emotivo. Le cose si tenevano insieme, non semplicemente per le leggi dell'associazione, che sono essenzialmente esterne e persino meccaniche, ma in ragione della loro intrinseca appartenenza a un significato mitico. (.....) E' attraverso la memoria, che gli Dei entrano nella nostra vita.(......) La psiche è costretta da essi a sviluppare una psicologia che sia basata non sull'umano ma entro il divino.
Lo strumento indispensabile per muoversi in questa dimensione spirituale è l'intuizione che "è quella funzione psicologica che trasmette le percezioni per via inconscia". Oppure come dice Jaspers, che parla di atteggiamento intuitivo, "non è un guardare rapido e distratto, bensì uno sprofondare in se stessi".

Queste definizioni non ci devono far pensare ad una funzione del tutto irrazionale, questa vive nell'intervallo fra l'io e l'inconscio mantenendone ambedue le caratteristiche. In questo modo l'intuizione apre un varco nel territorio dell'inconscio e attraverso il simbolo collega l'infinito con il finito; se ascoltata consente di effettuare sintesi che, esulando dalla razionalità, aggiungono nuove valenze al vecchio pensare. Il pensiero dell'uomo ha la tendenza a possedere e per questa ragione a cristallizzarsi in forme logiche; l'intuizione squarcia questa consuetudine allargando il significato del pensato e restituendo al pensiero la possibilità di percepire la realtà nella sua totalità mutevole.
Così come la magia naturale e le religioni in genere se codificate diventano riti segnici, così l'intuizione, quando diventa sintesi deduttiva non ha più niente a che fare con il mistero.
Il termine mistero deriva dal latino misterium, dal greco mysterion attraverso mystes che significa iniziato dal verbo greco myein che significa chiudere, in questo senso le labbra per fare silenzio, per tenere il segreto come dovevano fare gli iniziati. Il segreto oltre a sottolineare l'esperienza come prettamente soggettiva, rappresentava anche un modo per lasciare agire all'interno dell'individuo la suggestione che la rivelazione simbolica aveva attivato. Fare silenzio era la modalità per preservare dall'aggressione della razionalità i contenuti emersi.

L'iniziazione non è comunicabile alla stessa maniera di quella "di un professore che nell'insegnamento profano comunica ai suoi allievi formule attinte dai libri, formule che essi dovranno soltanto immagazzinare nella loro memoria; si tratta qui di una cosa che, nella sua essenza stessa, è propriamente incomunicabile, poiché sono stati da realizzare interiormente". L'esperienza iniziatica quindi rappresenta un mutamento di visuale che permetteva all'uomo di ri-collegarsi con il divino. Apparentemente nel nostro mondo attuale le iniziazioni sembrano scomparse, ma esistono ancora sotto forma di riti di passaggio depotenziati, infatti i vari festeggiamenti che vengono effettuati per il nuovo anno, per le nascite, per i compleanni o per qualsiasi conquista di tipo sociale, sono un pallido ricordo dei riti di rinascita spirituale che accompagnavano in illo tempore l'uomo. Raramente, oggi, questi passaggi corrispondono a mutamenti ontologici dell'individuo che li esaurisce invece in un'acquisizione di concreto potere personale e non in senso simbolico. Per questa ragione l'uomo non riesce più ad attuare quella forma di rigenerazione spirituale che gli era naturale in altri tempi.

"L'originalità dell'uomo moderno, la sua novità in rapporto alle società tradizionali, è appunto la volontà di considerarsi un essere unicamente storico, il desiderio di vivere in un cosmos radicalmente desacralizzato".

L'antico adepto che si disponeva all'iniziazione sapeva che per accedere ai misteri doveva abbandonare il suo stato precedente, in qualche modo doveva morire per rinascere. La "morte" allora veniva a far parte dell'esistenza dell'uomo e lo accompagnava per tutta la sua vita rappresentando sempre il momento di passaggio da uno stadio ad un altro.
Oggi, il processo di crescita si svolge in modo automatico, non ci sono più livelli da conquistare, non si muore più per rinascere, in questo contesto la morte è vista solo come fine.
La perdita del valore rituale della morte tende ad attivare e ad aggravare il tema della paura; per questa ragione la morte è bandita, rimossa dalla società attuale e l'uomo si sforza, attraverso i suoi tecnicismi, di non morire.

Ma rimuovendo la morte si demonizza il divenire: l'evoluzione trasformativa.

"Ho buoni motivi per supporre che le cose non finiscano con la morte. Sembra che la vita sia un intermezzo di una lunga vicenda. Esisteva già prima che esistessi io e continuerà molto probabilmente anche dopo, quando sarà finito quest'intervallo conscio in un'esistenza a tre dimensioni".

Il processo del divenire cosciente, va inteso come individuazione e ogni uomo, per dare senso alla propria vita, deve realizzare questo percorso tenendo sempre presente però che egli "vive in un mondo che per certi aspetti è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili", e soprattutto che "L'inatteso e l'inaudito appartengono a questo Mondo".

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