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Dario Squilloni

Re piumato.jpg (55174 byte)Vi ringrazio per questa introduzione che mi permette di evitare una serie di preliminari e alla quale vorrei riallacciarmi riprendendo il confronto fra alchimia e psicologia, a partire dalla forte affermazione, enunciata da Michela Pereira la scorsa settimana, la quale ha giustapposto il percorso alchemico in quanto filosofia, in quanto sedicente filosofia, alla filosofia scolastica del periodo da lei analizzato.
Dal discorso della Pereira risultava evidente come queste due "filosofie" si contrapponevano proprio rispetto al lavoro, al lavoro che ciascuna di queste due metodologie operava. Lavoro eminentemente speculativo quello della filosofia scolastica, invece opus quello alchemico. Proprio dall’opus vorrei partire premettendo alcuni cenni storici sulla psicanalisi e sul termine "simbolo", che possono aiutarci a capire come si è generato l’interesse di Jung verso l’alchimia.
In piena epoca razionalista Freud è il primo ad accorgersi che le cose non hanno solo il significato che noi gli attribuiamo. La sua intuizione rappresenta un nuovo, moderno ritorno alla percezione di uno spessore, di un significato ulteriore nelle cose, negli eventi, nelle manifestazioni che ci circondano.
Parlando della ricerca psicologica di Freud e Jung, un aspetto importante, che spesso viene dimenticato, risiede nel fatto che il terreno del quale i due studiosi si occupano e nel quale si muovono è quello della salute psichica del paziente: le loro ricerche quindi partono, non lo si sottolinea mai abbastanza, dalla prassi terapeutica, da una "pratica". Ecco, questo forse è il primo importante elemento che li accomuna in qualche modo agli alchimisti. Le loro considerazioni non sono affatto speculative, soprattutto ai loro esordi, ma partono dall’esigenza di intervenire nella realtà concreta... la realtà patologica come era allora definita, come a tutt’oggi da alcuni viene ancora definita, delle persone danneggiate psicologicamente.
Come è noto Freud si accorse, nei primi casi da lui trattati, che una serie di atteggiamenti, comportamenti strani, sintomatologie di vario genere, che apparentemente non avevano niente a che vedere con le manifestazioni di disagio del paziente, non solo non erano casuali, ma si interponevano come una serie di "maschere" che celavano un significato nascosto, un evento traumatico a monte della manifestazione patologica. Attraversando a ritroso la successione di "veli", di figure distorte dell’evento originario, si poteva arrivare al "nocciolo" del problema, alla "causa" che, una volta riportata alla luce, riconsegnata alla coscienza del soggetto, produceva la scomparsa del disturbo. Ecco quindi che l’"apparenza" di un evento, l’apparenza, anzi, l’apparente mancanza di significato di un evento, nella lettura di Freud rivela invece la presenza addirittura di sequenze di significati; anche se ancora si tratta di significati di eventi che vengono intesi meramente come "sintomi" e come "maschere". Intendo dire, seguendo Freud, che se dietro una certa manifestazione, un atteggiamento isterico, uno svenimento, un lapsus o i materiali onirici, è possibile risalire al vero motivo del disagio ripercorrendo all’indietro una sequenza di immagini sovrapposte una sopra l’altra, ciò significa considerare queste immagini appunto come delle "maschere", cioè essenzialmente come distorsioni del significato originale. Questo metodo è stato definito indiziario, un metodo alla Sherlock Holmes, che risaliva una catena di "indizi", di "segni", fino a trovare il colpevole, la "causa".
Il metodo indiziario ha rappresentato nell’epoca contemporanea un primo tentativo di percezione di un’ulteriorità di significato rispetto alla semplice evidenza delle cose.
Jung va ben oltre. Allievo ed erede designato di Freud, ad un certo punto si rende conto, nella sua esperienza di psicoterapeuta a contatto soprattutto con i contenuti onirici dell’inconscio, che le immagini che si presentano nei sogni dei pazienti non sempre, anzi raramente, sono riducibili a una sequela di maschere i cui significati riconducono sì, a volte, a un nucleo problematico originario, ma più spesso non vengono, attraverso questo tipo di lavoro indiziario, assolutamente comprese. Spesso la sintomatologia non scompare e la persona non guarisce, dimostrando l’insufficenza di questo approccio.
Jung si accorge inoltre che certe immagini "fondamentali" ricorrono spesso ... le denominerà archetipi, cioè forme originarie che definiscono strutture psicologiche alle base dello sviluppo dell’essere umano come specie, indipendentemente, secondo Jung, da una trasmissione diretta, orizzontale, storica di questi processi... Immagini, cioè, che possono sorgere e che si ritrovano in tutte le culture, in tempi e luoghi così diversi per le quali risulta difficilissimo o addirittura impossibile stabilire l’esistenza di un avvenuto contatto fisico. Quindi strutture veramente originarie e precipue della psiche dell’uomo in generale, che sono, per così dire, dei modelli "a priori" in base ai quali si esprimerà la fantasia e l’immaginazione, la produzione psichica, degli uomini nelle varie epoche e società di appartenenza.

L’archetipo è un’immagine: pensate per esempio all’archetipo della quadripartizione, l’archetipo del cerchio, l’archetipo della croce, che rappresentano l’essenza simbolica "potenziale" di qualcosa che successivamente, a livello immaginario, si potrà manifestare nelle migliaia di modalità possibili a seconda delle società e dei diversi contesti culturali.

Secondo Jung si tratta di immagini che l’uomo eredita alla nascita: qui risiede l’altra grande differenza da Freud che vale la pena sottolineare, poiché tutto il lavoro freudiano di svelamento delle maschere porta al ritrovamento della causa di un dramma che, per Freud, il soggetto ha esperito in vita. Il percorso di Freud o perlomeno del primo Freud, viene giocato rigorosamente all’interno dei confini di quello che viene definito l’inconscio personale, cioè il luogo dove il soggetto conserva le immagini di una serie di esperienze, eventi, attività, comportamenti rimossi, che il soggetto stesso ha potuto però acquisire solo dopo il momento in cui è nato o al massimo, (questa datazione viene, dalle più recenti ricerche, spostata sempre più all’indietro), come percezione del feto nella vita intrauterina. In ogni caso la formazione dell’inconscio non sfugge al contesto storico-temporale come unico luogo dell’esperienza psichica.Androgino.jpg (26035 byte)
Diversamente, per Jung, così come ereditiamo biologicamente, per esempio, i caratteri somatici, così, anche sul piano psichico, arriviamo al mondo già costellati da elementi psichici ereditati che possono provenire, risalendo la catena filogenetica, fino ai primordi della specie. Dentro di noi, secondo Jung, portiamo tracce della psiche primordiale, addirittura della sua condizione pre-umana. Strutture estremamente arcaiche, quindi fondamenti, pilastri di base, su cui poi si è sviluppata la complessità della psiche ulteriore.
Questo tipo di constatazione porta Jung ad ampliare notevolmente il significato di "segno" termine col quale lo studioso svizzero definì il sintomo, l’immagine sintomatica studiata da Freud. Il segno infatti è qualcosa che sta al posto di qual cos’altro, ad esempio un nome che sta al posto di una strada, qualcosa che, per qualche motivo, viene impiegato (consciamente o inconsciamente), per sostituire l’immagine reale. Nei sogni, secondo Freud, si manifestano, per così dire, sotto mentite spoglie, contenuti della psiche la cui percezione, per la loro sgradevolezza, l’Io del soggetto non è in grado di recepire direttamente; il contenuto può superare la "censura" dell’Io solo "mascherato". Una corretta interpretazione della catena di maschere, cioè di segni, rimanda, come abbiamo detto, alla causa originaria: non diversamente dal "sintomo" dell’emicrania che rimanda alla "causa", l’indigestione della sera prima.
Il simbolo per Jung è invece qualcosa di più ampio di un segno. Pur mantanendo in pieno la funzione di sintomo, di segnale, rappresenta però anche qualcosa di "vivo", cioè non semplicemente qualcosa che sta al posto di qual cos’altro, ma che porta in sé contenuti potenziali che potranno dare luogo a forme evolutive del tutto nuove. In ciò, per Jung, risiede la potenza della funzione simbolica, nel fatto cioè che un simbolo è un produttore di sgnificati inediti, e non solo una maschera per significati già noti.

Qui si consuma la separazione definitiva fra Freud e Jung, perchè da questo momento in poi Jung considererà tutto il materiale psicologico, soprattutto il materiale onirico, come qualcosa di molto diverso da un materiale sul quale intervenire in maniera oggettivante. Ed è qui che il nostro discorso può riallacciarsi alla divaricazione fra scienza e opus alchemico, tracciata l’altra volta da Michela Pereira. Jung si avvicina al materiale onirico come l’alchimista alla "prima materia". Il lavoro su un sogno non può limitarsi alla sua "spiegazione",in quanto un sogno può contenere elementi di novità che non riguardano contenuti rimossi di esperienze coscenti del sognatore, ma che provengono dagli strati profondi della psiche e non sono ancora mai emersi al livello coscente. Per Jung l’inconscio non è solo un deposito dove vengono conservate tutte le cose rimosse, le cose che l’Io non è in grado di trattenere nel campo limitato della propria coscienza, ma è anche e soprattutto la fonte e l’origine di tutte le nostre possibilità creative. Un tale materiale va trattato in maniera diversa da un occhio meramente analitico, scientifico, che tende semplicemente a ridurlo alla somma algebrica degli elementi di cui è composto. L’opus alchemicus e il comportamento dell’alchimista che è quello, appunto, di lavorare la materia, di mescolare le proprie mani dentro la materia, sono in stretto parallelismo con il lavoro della Psicologia Analitica e con l’atteggiamento analitico elaborato da Jung nei confronti delle persone che ricorrono all’analisi per guarire dai propri disturbi psichici. Sinteticamente possiamo dire che, dal momento in cui una persona entra in analisi, non deve essere, secondo Jung, esaminata attraverso l’applicazione di una serie di "griglie esperienziali precostituite", con le quali è possibile "sezionare" questa persona e i materiali che porta nel setting come se fossero "oggetto" di ricerca. Niente di tutto questo. Per Jung, questa persona, come quella successiva o quella precedente, sono dei casi "unici", totalmente a sè stanti che non possono essere più che tanto valutati in base all’esperienza passata e alle teorie precedentemente elaborate... nel trattare l’incontro, la cosa più importante da considerare è che il lavoro che avverrà con questa persona non è già noto all’analista. L’analista deve trattare materiale psichico, è non può comportarsi come farebbe un medico con il fisico di una persona. Il medico chiede la sintomatologia, ausculta, visita e dà una diagnosi in base a quelle che sono le sue conoscenze. Per Jung, quando si viene a contatto con la psiche la questione deve essere posta in maniera diversa, poichè i contenuti che una persona porta in analisi sono per la maggior parte contenuti che ancora devono manifestarsi. Sono contenuti potenziali e quindi ignoti. Se venissero sottoposti ad una griglia già nota verrebbe a perdersi proprio gli elementi di vitalità e di novità che possono scaturire da una manifestazione della psiche.
Se ripensiamo a ciò che ha detto Michela Pereira sull’opus dell’alchimista, da lei illustrato attraverso la lettura di una bellissima sequenza di immagini simboliche dell’epoca, ci accorgiamo di molti punti di contatto con quanto stiamo dicendo. L’alchimista, infatti, criticava la filosofia scolastica proprio per la sua ricerca spasmodica di universali che potessero contenere tutti gli oggetti esistenti e quindi essere dei modelli astratti, tali da poter dare sempre risposta alle esigenze esistenziali vecchie e nuove. L’alchimista si muove in maniera molto diversa. L’alchimista non si astrae, anzi si immerge, potremmo dire si coinvolge con la materia trattata e in questa differenza di atteggiamento fra scolastici e alchimisti possiamo riconoscere un parallelismo con la più importante differenza fra l’atteggiamento di Freud e quello di Jung relativo ad uno degli eventi più significativi del processo analitico: il fenomeno del "transfert".
Freud si accorse molto presto che durante il rapporto analitico si verificava un fenomeno caratterizzato dalla proiezione massiccia di quantità affettive da parte del paziente sull’analista: dal punto di vista di Freud ma soprattutto dal punto di vista del contesto culturale dell’epoca, questo evento veniva considerato una vera e propria interferenza nel rapporto di cura della patologia, perchè creava tutta una serie di atmosfere spiacevolmente ambigue, umbratili, difficilmente comprensibili, che tendevano a coinvolgere Coniunctio.jpg (39477 byte)l’analista in prima persona in una atmosfera che, per usare un termine alchemico, potremmo definire una vera e propria nigredo. E’ proprio sul modo di porsi nei confronti di un tale coinvolgimento che, a mio parere, si evidenzia la profonda differenza fra l’atteggiamento analitico di Freud e quello di Jung. Infatti, la tecnica freudiana si costituisce come un tentativo sistematico di tenere a distanza, di oggettivare la persona che va in analisi, con i suoi contenuti e le sue proiezioni. Secondo Jung il coinvolgimento dell’analista, laddove si produce un transfert, è invece inevitabile, poiché questo fenomeno si manifesta là dove è in fieri la possibilità di un profondo processo di rinnovamento e di trasformazione. Appunto un opus verso il , verso l’individuazione. Là dove questo avviene sarebbe, secondo Jung, insufficiente per l’analista porsi su di un piano di distacco perchè ciò vanificherebbe, respingendole, la manifestazione delle potenzialità dei contenuti che vengono proiettati su di lui. L’analista naturalmente, per poter coinvolgersi un qualche modo, deve avere una coscienza, una consapevolezza di sé, che gli proviene dal percorso analitico personale e dalla sua esperienza di analista, tale da consentirgli di essere coinvolto e allo stesso tempo non sopraffatto dal clima di proiezione affettiva che entra in ballo nel rapporto. Questo è l’altro elemento fondamentale. Ciò che entra in gioco per l’analista, sul piano psicologico, (ciò che Jung ha pensato sia entrato profondamente in gioco anche per l’alchimista, anche se l’alchimista, soprattutto quello dei primi secoli del secondo millennio, cercava l’oro, o il lapis philosophorum, e probabilmente non era consapevole di compiere, attraverso l’opus, anche un percorso psicologico personale), ciò che prepotentemente entra in ballo è l’energia affettiva. Quindi, non si tratta solo di modalità comportamentali, di funzioni psicologiche, ma stiamo parlando anche di energia, cioè del propulsore che muove queste strutture. Questo propulsore crea disagio al soggetto nella misura in cui rimane fissato ad immagini originarie, in genere quelle genitoriali, impedendo il decorso evolutivo. Altro importante parallelismo con una serie di immagini che con l’alchimia hanno molto a che vedere, fondamentalmente caratterizzate da l’aspetto incestuoso. Lo stesso fenomeno del transfert nei confronti dell’analista, è caratterizzato da una forte affettività infantile che l’analizzando ripropone a partire dalla sua antica esperienza affettiva giocata nel rapporto con i propri genitori, generalmente con il genitore del sesso opposto. Questa proiezione crea un’atmosfera di forte ambiguità alla quale però l’analista, secondo Jung, non deve sottrarsi, nonostante si generi in questo modo una zona di nigredo vera e propria, cioè una zona nella quale ci muoviamo a tentoni perchè ben poco di ciò che sta accadendo è visibile nel vero senso della parola. Fondamentalmente ciò che accade è qualcosa che ci coinvolge profondamente sul piano inconscio.
Per quanto riguarda la prima parte del lavoro analitico, mi limiterò a questa fase, potremmo dire di "accettazione del transfert" che, in rapporto all’alchimia, possiamo definire come la fase della nigredo la quale non è, come Jung osserva, necessariamente la prima fase del processo individuativo. Infatti, per arrivare alla nigredo, vale a dire a questo coinvolgimento (cioè ad una forma di rapporto che non è più quella fra soggetto e oggetto, ma fra soggetto e soggetto), bisogna per l’appunto aver superato quell’atteggiamento di difesa che Michela Pereira ha descritto nella giustapposizione fra l’opus alchemicus e la filosofia scolastica, e che noi possiamo vedere sul piano della storia della psicanalisi giustapponendo, in maniera forse un po’ troppo riduttiva ma funzionale al nostro discorso, Freud e Jung. È fondamentale superare quell’atteggiamento di rigidità che automaticamente ci costringe in una posizione difensiva rispetto alla proiezione dei materiali inconsci dell’altro che tenta con tutte le sue forze di coinvolgerci affettivamente. E va sottolineato che l’epoca contemporanea, soprattutto dal 1800 in poi, ha elaborato, a questo scopo difensivo, strumenti raffinatissimi di oggettivazione. Tutta la scienza ne è un esempio, così anche una parte della tecnica freudiana.
Laboratorio alchemico.jpg (21133 byte)Per arrivare alla nigredo bisogna quindi anzitutto superare questa prima barriera protettiva costituita dalle nostre griglie teoriche, il che non vuol dire rinunciare a utilizzarle, vuol dire semplicemente che dobbiamo smettere di ridurre ciò che incontriamo a ciò che già conosciamo. Se riusciamo a sospendere per un attimo l’attività razionalizzante e pre-giudicante, allora consentiamo l’espressione di questo primo "magma" indifferenziato di contenuti, in cui le massicce proiezioni dell’uno costellano gli stessi contenuti inconsci anche nell’analista. Contenuti inconsci, quelli dell’analista, che sono probabilmente più elaborati ma non per questo meno pervasi di affettività. Ecco, in questa fase di nigredo viviamo in un’atmosfera nella quale siamo mossi da sentimenti, pensieri, atteggiamenti ecc., di cui ignoriamo il vero scopo, il vero significato, e che percepiamo come estremamente destabilizzante. La stessa cosa probabilmente percepiva l’alchimista quando dal magma della prima materia si enucleava la figura di Mercurio, l’elemento sfuggente e diabolicamente destabilizzante, destrutturante. La nigredo opera uno stato di vera e propria "possessione" da parte di contenuti che solo successivamente, a volte molto più tardi, si renderanno palesi alla coscienza del soggetto.
Jung dà un esempio autobiografico di questo stato che gli viene preannunziato dall’inconscio attraverso un sogno, in un periodo della vita in cui ancora ignorava il suo interesse per l’alchimia. Nei primi anni di ricerca, prima di arrivare al periodo in cui si porrà direttamente a confronto con i propri materiali inconsci, Jung si dedica allo studio delle religioni, poi soprattutto allo studio della filosofia ermetica. L’alchimia ancora, siamo negli anni ‘20-’30, non ha quello spazio che successivamente tanto caratterizzerà i suoi studi. Iniziò comunque a leggere qualcosa della materia e poi, a un certo punto, ebbe questo sogno:
" Fu nel 1926 che feci il sogno fondamentale che anticipò il mio incontro con l’alchimia. Ero nel sud-Tirolo, in tempo di guerra, mi trovavo sul fronte italiano e rientravo dalle prime linee con un piccolo uomo, un contadino, sul suo carro tirato da un cavallo. Dovevamo attraversare un ponte e poi passare attraverso un tunnel la cui volta era stata parzialmente distrutta dalle granate. Arrivando alla fine del tunnel, vedevamo dinanzi a noi un paesaggio soleggiato e riconoscevamo la regione veronese. La città era ai miei piedi, radiosa alla luce del sole, ne provavo sollievo ed avanzavamo nella verde fertile pianura lombarda. La strada portava attraverso un’incantevole campagna primaverile e vedevamo i campi di riso, gli olivi, le vigne. Poi lungo la strada, diagonalmente, vedemmo un grande edificio, un castello di grandi proporzioni piuttosto simile a un palazzo ducale dell’alta Italia. Era un tipico maniero con molte dipendenze e costruzioni laterali. Proprio come al Louvre, la strada passava davanti al castello attraverso una grande corte. Io e il piccolo contadino giungevamo a un portone e da qui potevamo vedere di nuovo attraverso un secondo portone all’estremo opposto, il paesaggio soleggiato. Mi guardavo intorno, alla mia destra era la facciata del maniero, alla mia sinistra le stanze della servitù, le stalle, i granai ed altri edifici minori allineati. Appena giungevamo nel bel mezzo della corte, dirimpetto all’entrata principale, avveniva qualcosa che non ci aspettavamo. Con un sordo fragore tutti e due i portoni si chiudevano, il contadino balzava da cassetta ed esclamava: "ora siamo prigionieri del secolo 17°". Rassegnato ho pensato: "già è così, ma che cosa si deve fare? Ora saremo prigionieri per anni". Poi mi veniva un pensiero consolante: un giorno, dopo anni, sarò di nuovo fuori".
Nei mesi successivi, Jung si sforzò, senza successo, di capire cosa volesse dire questo sogno finché, due anni dopo, il suo amico Richard Wilhelm gli inviò il "Fiore d’oro", un importante testo di alchimia cinese, di cui successivamente stilerà un commento, e cominciò ad interessarsi all’alchimia, procurandosi alcuni testi, fra cui un volume del 1593, l’Artis Auriferae. Fu solo dopo altri due anni che, meditando le immagini di questo testo che lo affascinavano completamente, ricordò il sogno del castello e si rese conto di quello che poi aveva detto nel sogno: "ora saremo prigionieri per anni" (in fondo così è stato perchè il suo lavoro attorno all’opus alchemico è stato più che ventennale).

Questo sogno, senza lasciarsi andare ad un tentativo di superficiale interpretazione, rappresenta però senza dubbio un tipico esempio di percorso alchemico dell’inconscio. C’è un conflitto iniziale, infatti siamo in tempo di guerra, c’è un tunnel da superare, immagine che rappresenta generalmente l’uscita da una situazione e l’ingresso in un’altra... e al di là del tunnel c’è una Shan-gri-là rappresentata in questo caso dalla pianura veronese con la città sullo sfondo, e poi un maniero. Come a dire che in ciò che inizialmente è conflittuale, risiede anche la possibilità di accedere ad un luogo di serenità e amenità. È l’inconscio che incita l’Io di Jung a fare attenzione a questo contenuto potenziale di grande ricchezza. Un aspetto interiore dedicandosi al quale (percorrendo le campagne piene di sole che ha sognato) Jung acquisterà alla propria coscienza tutta l’energia positiva che lo costella. Questo è un tipico esempio di come funziona un "processo alchemico dell’inconscio", che può prodursi solo a patto di "metterci le mani", a patto di coinvolgersi in esso. Limitarsi a interpretare il sogno e capirne il significato non è sufficiente: è necessario invece praticare, fare l’esperienza, portare avanti il lavoro sul sogno.

A cosa serve tutto questo? Serve a trasformare la direzione circolare e ingorgata dell’energia: quella stessa energia che girando su se stessa provoca quei disagi che spingono le persone da Jung e da Freud, quella stessa energia che produce sintomatologie a volte gravissime, si libera, attraverso questo tipo di lavoro, attraverso l’opus, dai legami dei modelli ereditari, si sottrae alla co-azione a ripetere, si differenzia da tutto ciò che l’ambiente impone con la sua forte opzione omologante penalizzando la novità dell’avventura individuale. Jung ha chiamato il processo alchemico psicologico, processo di individuazione proprio perchè tende ad individuare la specificità di ciascuno noi, a rendere giustizia, se così vogliamo, e possibilità di espressione a quelle parti di noi che all’interno di un contesto collettivo vengono generalmente penalizzate.
Là dove questi contenuti inconsci hanno una consistenza e una rilevanza tale da non poter essere ignorate dall’Io perché, ancorché rimossi, interpellano l’Io attraverso la sintomatologia, se l’Io da loro spazio di ascolto e si coinvolge in percorso elaborativo, diventano appannaggio dell’individuo e, attraverso la loro integrazione alla coscienza, l’individuo può esprimere la propria specifica, singolare creatività.

Questo, come lo vede Jung, è il percorso verso il Sè, il percorso verso l’individuazione.


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