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Carlo Alberto Cicali

 

sole_luna.jpg (19016 byte)Cercherò di essere breve, e intanto ringrazio gli amici che mi hanno preceduto perché le cose che hanno detto mi consentono approfondire direttamente l’argomento di cui parliamo. Inizierò da una distinzione che fece Michela Pereira, la scorsa volta, che per me è essenziale, e riguarda il rapporto fra concetto e immagine. Il concetto è qualcosa che ha a che vedere soprattutto con la ragione, è l’espressione diretta della ragione; l’immagine invece è legata ai processi interiori della psiche, in modo così stretto che Jung non esita a dichiarare: "la psiche è immagine". Cercherò di entrare in questa sede psichica dove, attraverso le immagini, vengono rappresentati i processi di trasformazione in atto, ma, per non dilungarmi, voglio portare la vostra attenzione sul piano concreto della nostra esperienza di vita che, per quanto mi riguarda, consiste soprattutto, in tutti questi anni di lavoro di psicoterapeuta, nell’esser testimone di questi processi trasformativi. Ma dove avviene questa trasformazione? In un luogo ben preciso, che Jung indica, in "Psicologia e alchimia", parlando appunto della imaginatio; egli dice: "il concetto di imaginatio è sicuramente una delle chiavi importanti, forse la più importante per comprendere l’opus..."
E prosegue:
"l’imaginatio,come la intendevano gli alchimisti, è in effetti una chiave che apre le porte del segreto dell’opus. Il luogo o il mezzo della realizzazione non sono nè la materia nè lo spirito, bensì quel regno intermedio di realtà sottile che può essere sufficientemente espressa soltanto dal simbolo. Il simbolo non è nè astratto nè concreto, nè razionale nè irrazionale, nè reale nè irreale, esso è sempre l’uno e l’altro".
Cos’è l’imaginatio, questa immaginazione da non confondere con la fantasia? Ecco, noi abbiamo un corpo, un corpo che si esprime attraverso i nostri sensi e soprattutto risponde a quelle che sono le nostre pulsioni; quindi il corpo sente il caldo, il freddo, ecc. In fondo il suo linguaggio è un linguaggio che reagisce con la propria pulsionalità, con la propria istintualità, vuole essere appagato nei propri bisogni. La fame deve essere appagata, la sete lo stesso, ecc., in una parola gli istinti principali che sono in noi così come negli animali. Il nostro corpo è ciò che ci lega alla natura ed è sostanzialmente questa parte di noi che ci rende animali. Poiché siamo animali, noi abbiamo bisogno di essere appagati nei nostri istinti, nella nostra realtà pulsionale. Ma la realtà pulsionale, nell’uomo, non rimane confinata in se stessa ma, in qualche modo, diventa in noi "emozione" e smuove la nostra capacità affettiva. Nell’uomo, quindi, agli istinti animali si aggiungono l’emotività e l’affettività quali importanti fattori che gli permettono di entrare in rapporto alla realtà che lo circonda. Gli studiosi del cervello indicano la prima parte del cervello, il cosiddetto "cervello rettile", quale sede delle reazioni pulsionali; e nella parte di cervello comune ai mammiferi superiori l’inizio dell’affettività, dell’affezione come modalità funzionale, ad esempio, alla cura della prole.Dragone.jpg (36860 byte)
Poi però abbiamo un’altra parte del cervello, divisa in emisfero sinistro ed emisfero destro, che sono la sede, rispettivamente, delle funzioni superiori, logiche e creative. Non voglio dilungarmi in questo, voglio però aggiungere che in noi, dopo le reazioni pulsionali e di affezione, avviene uno scarto percettivo che innesca una funzione immaginativa. Cioè quella funzione che poi è il regno della psiche, il luogo dove ci costruiamo un’immagine di ciò che proviene da dentro e da fuori di noi.
Ciò non esaurisce le funzioni in atto, poiché siamo in grado di costruire qualcosa ancor più definito trasformando questa immagine in "concetto". Potremmo dire che attraverso la concettualizzazione, l’essere umano raggiunge il suo massimo livello di "controllo sulla realtà".
Va però sottolineato che la capacità percettiva delle nostre emozioni rappresenta un sistema di conoscenza più diretto e immediato, rispetto alla concettualizzazione. Quando sentiamo una cosa, quando entriamo in rapporto con qualcuno attraverso il sentire, quasi sempre la percezione è più diretta, più immediata, più vera di quando invece "capiamo". Il capire prevede un guardare, un pesare, sentire è sentire direttamente l’emozione, è qualcosa di più immediato.
Per ritornare all’immaginazione di cui parla Jung, possiamo riassumere: siamo fatti di queste tre dimensioni, una pulsionale, una immaginativa o psichica e una concettuale ma, se così è, deve esserci un piano in noi dove queste tre funzioni si incontrano dando luogo ad una sintesi, un piano dove avviene l’opus, la trasformazione. Questo piano certo non può essere quello pulsionale perchè il piano pulsionale consuma subito la propria energia ai fini del soddisfacimento del bisogno. E non può essere neppure il piano razionale, perchè separa e concettualizza la nostra realtà e quindi analiticamente provoca un distacco e a un’astrazione dalle nostre pulsioni in base al quale vediamo molte volte la nostra mente irrimediabilmente scissa dal nostro corpo. Mente e corpo si contrastano, con la mente che cerca di arginare e controllare le esigenze pulsionali sostanzialmente rimovendole ed esponendosi così alla "vendetta delle pulsioni" che si manifesta attraverso l’insorgere di malattie poiché la mente non può impedire troppo a lungo agli istinti di manifestarsi.
Mentre il bambino in qualche modo lascia libero sfogo a tutte queste parti, gli adulti strutturano quello che Freud ha chiamato "Super-Io", col quale cercano di controllare le profondità delle parti pulsionali che Freud chiamò "Es".
Il problema è appunto questo, che fanno parte di noi due dimensioni in guerra fra loro. Giorgione(La tempesta).jpg (16034 byte)Oggi, in Occidente, è certamente la parte più razionale, la parte super-egoica che prevale nella coscienza e respinge nell’inconscio la parte pulsionale che, peraltro, interferisce continuamente e pesantemente con l’Io. Noi sentiamo che c’è una nostra componente pulsionale che volere o non volere, se è troppo trattenuta, scappa da tutte le parti e ci sommerge, ci "possiede". L’individuo occidentale è "scisso", vive cioè una vita all’insegna di una razionalità unilaterale che lo inaridisce, oppure, costretto dal ritorno inflattivo delle pulsioni rimosse, rimane al livello della sopravvivenza, incapace di un progetto che migliori la qualità esistenziale. Le due parti dell’individuo scisso combattono l’una contro l’altra perchè non trovano un luogo di interazione, di unione. Il luogo dove può avvenire questa trasformazione, la "camera nuziale", è la nostra immaginazione che non è ciò che comunemente chiamiamo "fantasia" ma è la funzione dell’immaginare, la "funzione simbolica della psiche", dove l’immagine che si forma è il risultato dell’incontro fra la "mente" e il "corpo". In quel luogo di "simbolo" (da "syn-ballein", tenere insieme), se la nostra parte pulsionale più profonda può astenersi dal soddisfare immediatamente e inesorabilmente le richieste dell’istinto e in qualche modo si trattiene, ottiene per così dire di "alzare" il livello della manifestazione energetica. Allo stesso modo se la razionalità si astiene dalla sua funzione separante e di controllo concettuale e si lascia andare, "abbassa" la propria capacità di definire, di dare forma alle cose e, unendosi così all’energia pulsionale nel luogo intermedio della psiche, dà spazio e modo alla nascita di un’"immagine".
In questo luogo che è il luogo dell’imaginatio, della funzione simbolica, avviene tutto quello che è stato detto da Michela Pereira, da Dario Squilloni e Antonio Tirinato. È il luogo della trasformazione, il setting analitico dove l’analista e il paziente non sono più "due" ma sono "quattro": cioè l’Io cosciente e l’inconscio dei due che sono entrati in relazione.
Affinché la coniunctio avvenga è evidente che non si deve passare all’atto pulsionale, cioè l’analista non può possedere fisicamente il paziente o viceversa, perchè in tal caso l’energia si esaurirebbe nel luogo dei bisogni, nel luogo della parte pulsionale e dall’appagamento del bisogno. Così come non si può rimanere, come rimaneva Freud, in quel distacco così dominato dal concetto, dove la relazione è sostituita da una situazione razionale che si sottrae al coinvolgimento, e quindi alla possibilità di coniunctio, con le armi di un’astratta strumentazione scientifica.
La funzione creativa della psiche esige proprio il rischio dell’incontro, in cui ognuno dei due mette, in ballo la sua realtà immaginativa. Ma questo già avviene nella vita a ciascuno di noi. A ciascuno di noi, in ogni rapporto, in ogni situazione relazionale avviene questo anche se non ce ne accorgiamo, e la notte, nei nostri sogni questo viene soprattutto narrato.
Se non ritorniamo in questo luogo che è l’immaginazione che, come vi ripeto, non vuol dire rimanere al livello della realtà istintuale e né al livello di quella razionale e di controllo, falliremo il luogo dove avviene la trasformazione. È vero però che ce ne siamo allontanati ed esitiamo a ritrovarlo perché presentiamo con angoscia che in quelle profondità che ci interpellano troveremo tutti quei contenuti e quelle ferite che ci fanno paura e ci fanno male. Ritrovare il luogo della trasformazione è una precisa esigenza ma anche un atto di coraggio, il coraggio dell’Io che deve lasciarsi coinvolgere, come ha affermato Dario Squilloni, ma non deve lasciarsi sopraffare. L’Io deve diventare, insieme all’altra persona, alla realtà che lo circonda, testimone di questo accadimento. Cioè un Io che non è più identificato con le proprie pulsioni per appagare i propri bisogni, né con la propria razionalità e con la propria capacità concettuale per poter controllare e descrivere la realtà. È invece testimone dell’incontro delle parti di sé, esposto al rischio che si genera ogni volta che qualcosa di sostanziale si trasforma. Rebis.jpg (43236 byte)
Se non recuperiamo questo luogo così importante che è il luogo della nostra immaginazione pregna di emotività e di istintualità, di coinvolgimento e di consapevolezza della ragione, non attraverseremo mai un processo che ci permetta di attuare quella trasformazione che Jung ha chiamato "processo di individuazione", quella trasformazione che gli alchimisti hanno chiamato "opus" e quella che anche il cristianesimo, in origine, indicava nel proporre il suo processo spirituale, e che è andato perso nel corso della storia occidentale. È andato perso perchè del messaggio cristiano, nella storia, si sono sviluppate soprattutto la morale e l’ascetica. È diventato quindi più una modalità pedagogica che trasformativa, modalità tesa al controllo degli istinti piuttosto che alla loro trasformazione all’interno della realtà psichica fino al luogo più profondo che è il "luogo del cuore", il "viaggio dei mistici".
La mistica non è un percorso ascetico, ma un viaggio nella realtà più profonda dell’uomo che è appunto la realtà immaginativa e trasformativa. A pieno titolo, quindi, Michela Pereira può affermare la distinzione da lei proposta fra alchimia e scolastica, poichè la scolastica in fondo fu la razionalizzazione di una teologia che escludeva la mistica in favore di un orientamento pedagogico; la parola stessa "scolastica" evidenzia l’adesione ad un atteggiamento teso più ad "imparare" che ad "esperire".
Se non recuperiamo nella nostra vita e nel mondo occidentale quel luogo dove avviene tutto questo che, come ripeto, è il luogo dell’immaginazione simbolica, non avremo mai nessuna vera trasformazione, perchè avremo soltanto una personalità scissa, divisa fra il soddisfacimento dei bisogni istintuali attraverso la nostra parte pulsionale, e il controllo illusorio della realtà intorno attraverso la parte razionale.


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