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Vocazione e Iniziazione

 

Per introdurre il tema di oggi ho pensato di utilizzare il testo di una canzone di Battiato che fa parte della raccolta "Orizzonti perduti" del 1985.

Un’altra vita

Certe notti per dormire mi metto a leggere,
e invece avrei bisogno di attimi di silenzio.
Certe volte anche con te e sai che ti voglio bene,
mi arrabbio inutilmente senza una vera ragione.
Sulla strada al mattino troppo traffico mi sfianca:
mi innervosiscono i semafori e gli stop
e la sera ritorno a casa con malesseri speciali.
Non servono tranquillanti o terapie,
ci vuole un'altra vita.
Su divani, abbandonati a telecomandi in mano,
storie di sottofondo Dallas e i Ricchi Piangono.
Sulle strade la terza linea del Métro che avanza,
e macchine parcheggiate in tripla fila
e la sera ritorno con la noia e la stanchezza.
Non servono eccitanti o ideologie:
ci vuole un'altra vita.

Quanti di noi hanno pensato in questi termini della loro vita? Quanti di noi hanno cercato di uscire dalla monotonia del quotidiano affidandosi ad una scelta che contenesse potenzialità di rinnovamento, ma che "per un destino avverso" poi non si sono mai realizzate? Ci siamo lanciati in un nuovo lavoro, in una nuova storia affettiva; abbiamo lasciato situazioni che ritenevamo consunte e abbiamo investito in un "nuovo" che si rivela giorno dopo giorno insoddisfacente. Il nuovo lavoro diventa ripetitivo, la storia affettiva monotona, le nuove amicizie più deludenti di quelle passate e tutto ripiomba in una delusione da cui non possiamo uscire. La "pillola", il rimedio assunto che pensavamo dovesse guarire non ha avuto l’effetto desiderato e la cura spesso si è rivelata peggiore della malattia.

"Non servono eccitanti o ideologie: ci vuole un’altra vita".

Il problema è sempre lo stesso: soffro, allora devo guarire. Guarire significa far sparire quella sofferenza che ci fa sentire inutili e incapaci di agire, togliere quel fastidioso sintomo e una volta per tutte star bene, fino a quando questo sarà possibile. Poi vedremo. A mio parere, su questo punto c’è un po’ di confusione: il problema non è rappresentato dallo star male, ma dalla possibilità di definire lo "star bene": quando si afferma di star bene? Quando non si sta male, verrebbe da rispondere. Sembra un gioco di parole, ma in realtà noi siamo abituati a definire in nostro "star bene" come assenza di "star male" ed è difficile andare più in là. È difficile perché, comunemente, i termini che tentano di definire in modo più ampio il nostro "star bene" noi li ricerchiamo nelle categorie dell’assoluto, invece sono relativi.
Mi torna in mente quello che da ragazzo mi dicevano i miei genitori: "Sei sempre scontento, di cosa ti lamenti, non ti manca nulla"! Dal loro punto di vista avevano ragione; la guerra e le difficoltà del periodo (i miei genitori erano nati nel primo novecento) avevano insegnato loro che una volta assicurata la sopravvivenza era tutto a posto e sotto controllo, ma io sono nato dopo la guerra e per me la sopravvivenza ed il pranzo quotidiano erano cose scontate e dovute, di conseguenza venivano alla luce altri bisogni più complessi, ma per loro incomprensibili.
Potremmo dire che soddisfatta la fase animale della sopravvivenza la vita si apre ad ulteriori esigenze psichiche realizzative. Mangiare non è più sufficiente bisogna anche trovare il modo di essere. Il disagio quotidiano diventa il centro dell’esistenza e tutto il nostro atteggiamento è finalizzato a ottenere nuove soddisfazioni, ma la vita, abbiamo visto, giorno dopo giorno, anno dopo anno ci insegna che queste non possono essere esclusivamente compensatorie.
Nell’esempio precedente, è evidente come il disagio dei miei genitori non si poteva placare con le "pillole" che andavano bene per me e viceversa.
La consapevolezza di ciò, conquistata con fatica attraverso il tempo, le delusioni e le esperienze, si riflette su tutti i rapporti affettivi che stabiliamo nella nostra esistenza e tutto ciò è espresso molto chiaramente da Jung nel seguente passo:

"Non è possibile vivere troppo a lungo nell'ambiente della propria fanciullezza o in seno alla famiglia senza che ciò costituisca un certo pericolo per la salute dello spirito.
La vita chiama l'uomo fuori, verso l'indipendenza, e colui che per indolenza o timidezza infantili non obbedisce a questo appello è minacciato di nevrosi. Una volta scoppiata, la nevrosi diverrà progressivamente una ragione sempre più valida per fuggire la lotta con la vita e per rimanere impigliati per sempre nell'atmosfera moralmente velenosa dell'infanzia".

Rimanere all’interno della famiglia di origine in questo senso significa rimanere attaccati alla letteralità dell’esistenza, significa negare che l’individuo possa essere composto di altro al di fuori dei suoi bisogni concreti e questo vale in egual misura sia per il cibo che per i rapporti affettivi che devono riempire, placare.
" (...)in genere gli uomini attribuiscono molta importanza ai legami affettivi, ma questi contengono proiezioni che è necessario respingere per realizzare se stessi e l'oggettività.".
è chiaro quindi che liberarsi dalla famiglia corrisponde a scegliere, a farsi delle domande, e non nell’accettazione supina di quello che la tradizione gli impone.

Abbiamo visto nella conferenza "Il mistero dell’esistenza individuale" come la consapevolezza dell’uomo segua un continuo ritmo di accrescimento e che durante l’arco della vita la mente acquista informazioni che le permettono di mantenere l’individuo in un rapporto omeostatico con l’ambiente che lo circonda, ma questo può avvenire sia nel bene che nel male. Ci possiamo infatti anche adattare, e spesso accade, all’assenza, una mancanza indifferenziata che potrei riassumere in maniera sicuramente riduttiva come assenza di desiderio, e forse in modo più preciso in un’espressione del tipo: un’assenza di desiderio di sé. Ma quando questo accade, di solito, ritroviamo questa idea tradotta in maniera attiva in un desiderio di te; spostando e subordinando all’incontro con se stessi un incontro fantastico con una metà che sappiamo con certezza esistere in qualche parte dell’universo e che vogliamo incontrare a tutti i costi.
Prosegue Jung: "I rapporti emotivi sono rapporti di desiderio, viziati da costrizioni e mancanza di libertà; si vuole dall'"altro" qualcosa che priva sia lui che noi della libertà".
Ancora è come se tutti i desideri realizzativi si fermassero in un ambito che riguarda l’esterio-rità della realizzazione che, per quanto brillante possa essere, cela un malessere strisciante che si manifesta a tratti.

Educazione e realizzazione, due forze contrastanti per eccellenza, si fronteggiano in un rapporto di equilibrio: La vita di un individuo si svolge in un luogo, anche ampio, ma con molte porte chiuse: l’educazione, la tradizione, gli hanno insegnato che queste non si possono aprire, ma devono restare chiuse, sigillate con i loro segreti che se conosciuti potrebbero destabilizzare l’esistenza.
Con il passare del tempo queste porte sono sempre più difficili da aprire, le serrature si bloccano e l’operazione necessaria all’apertu-ra che l’individuo dovrebbe compiere si trasforma dalla semplice azione sulla maniglia in un traumatico sfondamento. Pochi di noi si possono sentire pronti a questo, l’energia necessaria non è mai abbastanza.
Ed ecco che il caso ci viene in aiuto: avvengono cose che la nostra ragione non aveva preventivato, incontri, accadimenti, perdite, distacchi che ci destabilizzano, ci costringono a soffrire e azzerano la nostra sicurezza.

Il caos che avevamo razionalizzato ritorna con tutta la sua forza e sfonda quelle porte che altrimenti sarebbero rimaste chiuse.
La considerazione che si sente più frequentemente di fronte ad un lutto improvviso è di solito:
"A cosa vale darsi da fare quando poi si muore improvvisamente?
Questa riflessione che rappresenta l’inutilità del nostro vivere nei confronti della fine dura un attimo e poi tutto ricomincia come prima, fino al prossimo lutto, e con il tempo che passa siamo messi sempre di più frequentemente davanti a questa farsa. La perdita di un affetto, di una relazione importante in genere ha il potere di distoglierci per un attimo dallo scorrere quotidiano e ripetitivo della nostra vita; in quel momento è come se sapessimo, attraverso l’identificazione con chi è morto, che quello che facciamo non è quello che ci realizza e di fronte alla morte sappiamo che dobbiamo fare "altro" e di più.

"Ci vuole un’altra vita"

Battiato con questa espressione, se vogliamo banale, ci vuol indicare un modo diverso di affrontare la vita stessa; ci chiama ad una visione del mondo diversa dove "l’altro", il mistero abbia finalmente un ruolo traente. Indirettamente ci chiama ad una visione diversa dell’esistenza ed allora proviamo ad immaginarci l’evento luttuoso che ci ha colpito come un accadimento che ci interpelli al di là della perdita.
La morte di questa persona, che senso ha nella mia vita? Che valore ha per me?  Per chi, per quale aspetto di me sto provando questo doloroso distacco?
Vorrei spingermi fino a pensare che quella persona sia morta, non solo perché il suo momento era giunto, ma anche per insegnarmi qualche cosa.
In questo modo la morte, ma, in effetti, qualsiasi avvenimento che ci tocchi da vicino emotivamente, acquista, se interpretato come se fosse un sogno e quindi in modo simbolico, un valore di rivelazione, di introduzione in una realtà più ampia dove le relazioni non sono solo causali, ed il senso delle cose della vita si allarga a dismisura.
In questo caso quella persona, quell’aspetto di me che mi ha lasciato e con cui mi sono incontrato in modo tanto traumatico, mi parlerà della mia interiorità, delle conquiste e delle perdite di cui la mia vita è costellata. Ogni avvenimento che mi colpisca emotivamente ha la possibilità di farmi riflettere sul senso della mia esistenza e di ricordarmi che io sono qui, ora, per "trovare la perla per la quale ero stato inviato".

"Il fatto che le convenzioni, dice Jung, in un modo o nell’altro continuino a prosperare, dimostra che la stragrande maggioranza degli esseri umani sceglie di seguire non la propria strada, ma le convenzioni; essi di conseguenza non sviluppano se stessi, bensì un metodo, e quindi una dimensione collettiva, a spese della propria interezza".

Vale la pena di ricordare qui che Jung chiama il percorso analitico processo di individuazione e quindi un processo che tende al riconoscimento e all’unione delle parti interne, infatti individuo viene usato nell’etimologia originale di "non diviso". Questo processo ci guida dal collettivo indifferenziato, attraverso un percorso di differenziazione e di riconoscimento delle parti interne, fino all’integrazione e all’unione interiore in un itinerario di tendenza, senza mete definitive, che, per questa ragione, si rinnova continuamente.
Mi rendo ben conto, anche personalmente, che l’esistenza dell’uomo si svolge tra la sollecitazione al rinnovamento e la resistenza a questo richiamo, ma l’appello continuo di quelle forze che Eliade, nel saggio presente nell’ottavo volume dei Quaderni di Eranos (presentati nel convegno sui miti di rinnovamento), chiama demoniache ci spinge al di là della nostra volontà e spesso anche al di là dei limiti che ci siamo proposti nella nostra vita.
Il significato con cui Eliade usa il termine demoniaco è quello del diaballo cioè del dividere, del mettere discordia fra una parte e l’altra e richiama il tema della lotta tra i "figli della luce" ed i "figli delle tenebre", narrata nei testi di Qumran che vedremo la prossima volta.
Il diavolo a cui accenniamo non ha nulla di maligno, ma direi che la sua presenza è necessaria perché abbia inizio un itinerario di differenziazione.

Ed ecco cosa scrive Eliade a questo proposito:

" (...) per tutte le società tradizionali la sofferenza ha un valore rituale poiché si presume che la tortura sia effettuata da esseri sovrumani e che abbia come scopo la trasmutazione spirituale della vittima. Anche la tortura è un’espressione della morte iniziatica. Essere torturato significa essere tagliato a pezzi dai demoni maestri dell'iniziazione, in altre parole significa essere messo a morte per smembramento. Ricordiamo come sant'Antonio fu torturato dai demoni: fu innalzato in aria e soffocato sotto terra; i demoni gli tagliarono le carni, gli slogarono le membra, lo fecero a pezzetti. (differenziazione).
La tradizione cristiana chiama queste torture "la tentazione di sant'Antonio" (ed è vero, nella misura in cui la tentazione è riconosciuta come prova iniziatica). Affrontando vittoriosamente tutte queste prove, cioè resistendo a tutte le "tentazioni", il monaco Antonio diventa santo. Ciò significa che ha "ucciso" l'uomo profano che era in lui e che è risuscitato come un altro uomo, un uomo rigenerato, un santo. Tuttavia, in una prospettiva non cristiana, ciò significa anche che i demoni hanno raggiunto il loro scopo, che era proprio quello di "uccidere" l’uomo profano per consentirgli di rigenerarsi. Identificando le forze del male nei demoni, il cristianesimo ha sottratto loro ogni funzione positiva nell'economia della salvezza. Ma, prima del cristianesimo, i demoni erano, fra l'altro, i maestri dell'iniziazione. Essi afferravano neofiti, li torturavano, li sottoponevano a moltissime prove e finalmente li uccidevano per poterli far rinascere in un corpo e con un'anima rigenerati. è significativo il fatto che essi abbiano svolto lo stesso compito iniziatico nella tentazione di sant'Antonio poiché, in fin dei conti, furono le loro torture e le loro "tentazioni" a dare la possibilità ad Antonio di accedere alla santità.
(...) Questa valorizzazione religiosa della sofferenza fisica è confermata da altri fatti: alcune malattie gravi, soprattutto le malattie psico-mentali, sono considerate dai primitivi come una "possessione demoniaca", nel senso che il malato è stato scelto dagli esseri divini per diventare uno sciamano, un mistico, e che, di conseguenza, sta per essere iniziato, cioè torturato, fatto a pezzi e ucciso dai demoni.
(...) Possiamo quindi concludere che le sofferenze fisiche e psichiche sono considerate torture indispensabili in tutte le iniziazioni; presso i primitivi la malattia era valorizzata come la conseguenza di una scelta sovrannaturale ed era perciò considerata come una prova iniziatica: bisognava "morire" rispetto a qualche cosa per potere rinascere, cioè guarire: si doveva morire rispetto a ciò che si era prima, alla condizione profana; chi guariva diventava un altro, un neonato nel nostro caso uno sciamano un mistico" un individuo direbbe Jung.

"Ma quando uno segue la via dell'individuazione, quando si vive la propria vita, si devono mettere anche gli errori nel conto: la vita non sarebbe completa senza di essi. Non c'è garanzia -neanche per un solo momento - che non cadremo nell'errore o non ci imbatteremo in un pericolo mortale. Possiamo credere che vi sia una strada sicura, ma questa potrebbe essere la via dei morti. Allora non avviene più nulla o, in ogni caso, non avviene ciò che è giusto.
Chiunque prende la strada sicura è come se fosse morto".

Prima di affrontare il tema del rinnovamento e della chiamata da un’altra angolazione mi sembra suggestivo fermare l’attenzione sul significato etimologico del termine appello. Questo è composto da ad-pello, ad - verso, pello - spingere quindi spingere verso.
Di conseguenza quando uno è chiamato è spinto verso qualcosa.

"C'era una volta una figliolina di un re che si annoiava tanto e non sapeva cosa inventare per ammazzare, come suol dirsi, il tempo. Pensa, pensa, si rammentò di avere una bella palla d'oro; la prese e se ne andò nel bosco a divertirsi.
In mezzo a quel bosco, però, c'era una polla d'acqua limpida e freschissima; la piccola principessa vi si sedette accosto e cominciò a lanciare in aria la palla e a farsela ricadere in mano. Questo giochetto andò bene per un poco, ma ad un tratto, quando la palla frullava in alto e stava per ricadere nelle mani protese a riprenderla, battè sul margine della sorgente e andò a ruzzolare nell'acqua.
La principessa ebbe un bel disperarsi e piangere: la palla d'oro era in fondo in fondo e nessuno poteva riprenderla.
-Ah, -gridava la principessina, -chi sa cosa darei per riaverla! I bei vestitini, i brillanti, le perle... perfino la corona d'oro darei, pur di riavere la mia palla!
Appena ebbe detto tutte queste cose, saltò fuori un rospaccio dal fango e le fece questa proposta:
-Senti, carina, io non so che farmene dei tuoi vestiti, dei tuoi gioielli e della tua corona...Ma se mi prendi con te a giocare, se mi lasci mangiare nel tuo bel piattino, bere nel tuo bicchierino e dormire nel tuo lettino, ti vado subito a ripescare la bella palla d'oro.
La bambina pensava che il rospo facesse per scherzo, perché quella brutta bestia non poteva certo uscire dalla sua mota né venire a tavola con lei a mangiare nel piatto dorato, a bere al bicchiere cesellato, e meno che mai a dormire con lei nel suo bel lettino con le cortine di damasco e con le lenzuola di seta. L'idea sola di aver quell'animale viscido accanto le metteva i brividi nelle ossa. Ma per riavere la palla che le piaceva tanto, rispose:
-Se sei capace di ripescarmela, ti prometto quello che mi hai domandato, caro rospino! -e in cuor suo gli diceva un sacco di impertinenze:
Quando il rospo ebbe dalla bella bambina la promessa di esserle compagno sempre, giorno e notte, si tuffò nell'acqua e sparì. Poco dopo tornò con la palla in bocca e la lasciò rotolare sull'erba. La piccola principessa afferrò la sua palla e se ne fuggì come il vento, mentre l'animale, soffiando, le ripeteva:
-Ohè, reginotta, ricordati i patti... prendimi con te!
Ma quella era già lontana e al povero rospo non pensava più."

Come vada a finire la storia tutti lo sappiamo, ma il tema che vorrei mettere in risalto attraverso questo racconto è che l’appello è un avvenimento che nulla ha a che fare con la ragione, e che l’iniziazione è il percorso successivo che discende dall’appello ed ha a che fare con un percorso interiore che non tende a possedere nulla, ma che prevede solamente la conoscenza del proprio posto nel mondo.
I diavoli di Eliade, il rospo della favola, il serpente che custodiva la perla, sono immagini simboliche che indicano che il nostro percorso non ha senso se non si confronta con le ombre profonde che abitano dentro di noi.
Nella favola, una svista, un errore rivelano un mondo insospettato e l'individuo entra in contatto con forze sconosciute.
Il caso è fonte di conoscenza, permette che l'individuo scopra delle forze che fino a quel momento non lo avevano stimolato e di cui ancora non è in grado di valutare l'importanza. Apparentemente sembra essere il caso a mettere in comunicazione i livelli inconsci, che contengono tutti gli elementi di vita rifiutati e non sviluppati, con la nostra realtà equilibrata e misurata.

I desideri repressi hanno più potere sulla realtà di quanto normalmente riteniamo; ad ogni buon conto, causale o acausale che sia, questo evento è una nota stridente in una tranquilla armonia e ci mostra una strada diversa, rifiutata, a tratti inquietante. Anche se nella favola si fa riferimento ad un momento di passaggio particolare, l'adolescenza della principessa, in qualunque momento della via questo si verifichi, corrisponde sempre ad un cambiamento di visuale, di orizzonte; l'individuo è spinto avanti, ma fatica ad accettare che la cosa certa si trasformi e sembra tutto incomprensibile. La perdita della palla d'oro deve essere interpretata come la perdita della ovattata sicurezza dell'infanzia e l'apparizione del rospo è il deus ex machina della trasformazione. Infatti, per poter ottenere il suo scopo conservativo, la principessa non ha indugi a promettere qualsiasi cosa al rospo, anzi, non pone nemmeno attenzione a ciò che promette tanto che il suo interesse è concentrato sullo scopo.
Il suo destino si compirà quando penserà di poter eludere gli impegni presi con le forze della trasfigurazione.
L'immagine inquietante del rospo, anche se la principessa sta correndo verso la rassicurante reggia paterna, ha inciso profondamente nella sua coscienza e ritornerà a tratti provocando dubbi, ripensamenti, una sorta di ansia profonda che si manifesta con l'impossibilità di staccare la propria mente da un ricordo che diventa ciclico e fastidioso.

Ritornando al tema dell'appello, l'ansia è il segnale del risveglio dell'Io. Questo allarme parla del dubbio che c'è in tutti gli esseri umani tra l'esporsi alle tensioni tra conscio ed inconscio, tra collettivo ed individuale oppure difendersi dalle proprie emozioni trincerandosi in un culturale collettivo rassicurante, in un'io ipertrofico, evitando ogni stimolo pericoloso che ricondurrebbe inevitabilmente l'individuo al doloroso distacco da una madre qualsiasi, da una situazione rassicurante.
Antonio attraverso il confronto con il diavolo ha avuto la possibilità di diventare santo, l’uomo attraverso le prove dolorose, i distacchi sviluppa quella consapevolezza che lo porta a diventare individuo.

Anche nell’ultimo film di Pieraccioni "Il ciclone" in proiezione in questi giorni il protagonista dice: "Il ciclone è quella cosa che entra nella tua vita all’improvviso, la sconvolge e quando finisce non ti pare vero che sia venuto"

La vita che si lascia trasformare dal caso è veramente un’altra vita.

 

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Antonio Tirinato - Centro Icone

Intervento tenuto all’Istituto N Stensen il 18\1\97
nell’ambito del ciclo - Percorsi di vita simbolica anno IV°

 

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