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Il mistero
dell’esistenza individuale

L'esperienza dell'uomo si muove secondo un processo di accrescimento e consapevolezza, riguardi esso il corpo o la mente.
In ogni fase dell'esistenza il corpo si forma, si sviluppa, le sue cellule continuamente nascono e muoiono; tutto segue un ritmo trasformativo.
Durante l'arco della vita, la mente acquista informazioni che le permettono di mantenere l'individuo in un rapporto omeostatico con l'ambiente che lo circonda; l'uomo inserito in questo scorrere dell'esistenza si è sempre sforzato di capire il perché della sua vita, del suo esistere e in questo sforzo di capire ha tentato di dare dei nomi alle cose, pur rendendosi conto che una realtà altra continuava a sfuggirgli e che le spiegazioni che gli venivano fornite dalle sue scienze erano sì esatte, ma non complete.
Ha percepito un mistero che non riusciva a spiegare, e che ha tentato di indagare attraverso la stesura di regole che gli fornissero un cammino certo e gli garantissero il risultato finale.
In fondo ad ogni percorso c'è sempre stato un premio per cui sembrava valere la pena correre; la conoscenza, il potere, la santità, la pace sono obbiettivi che fanno affannare l'uomo da secoli per la loro conquista, sono mete da tutti riconosciute importanti che hanno perso il loro significato individuale.
Ma altrettanto difficile è il mantenimento delle mete conquistate; per ottenere ciò egli toglie dalla propria vita tutto quello che possa in qualche modo minacciarla e da quel momento in poi il percorso è finito, cristallizzato.

In fondo quale è il vero compito della nostra esistenza?
"Compito dell'individuo è quello di realizzare se stesso". Risponde Jung obbligandoci a riflettere.
E con la riflessione affiorano nella nostra mente modelli realizzativi standardizzati che senza dubbio ci rimettono nella condizione iniziale; ma Jung, oltre alla possibilità di riflettere, ci offre anche una strada da seguire, un percorso senza meta dove gli obbiettivi realizzativi esterni sono sostituiti dalle potenzialità che ogni individuo conserva celate dentro di sé, come se fossero attitudini da nascondere.
Il mondo in cui siamo inseriti è la base di partenza della nostra esperienza e da questa bisogna iniziare.

Claudio Risè nella comunicazione presentata al convegno "Il vertice e l’abisso", tenuto a Firenze il 29-30 Ottobre 1994, esordiva:
"L'essere umano fa una grande fatica a rimanere sulla terra. La sua psiche, e la sua immaginazione, sono costantemente impegnate nell'andare al di là: al di sopra, o di sotto, di quella superficie sulla quale si svolge la sua vita.La spinta della verticalità non lascia tregua al suo inconscio, e da lì irrompe in continuazione nella coscienza. L'uomo é incalzato, tutta la vita, dalle contraddittorie forze dell'alto e del basso. Siamo sempre lì, braccati tra queste due direzioni che rimandano in continuazione l'una all'altra. Nella psiche umana, quando si tende a salire, é perché da qualche parte si teme o si sperimenta una discesa. Questo movimento ha a che fare, naturalmente, col vissuto personale di pesantezza-leggerezza. Salire é un tentativo, spesso inconscio, di sfuggire alla pesantezza, la cui attrazione tuttavia si rinvigorisce man mano che si approfondisce l'abisso sotto di noi. Scendere é invece riconoscere e un venire a patti, a volte eccessivo, con la nostra pesantezza, nella fantasia inconscia di arrivare ai livelli più bassi di sprofondamento, quelli che, per la loro collocazione infera, ci mettono al riparo da ulteriori cadute.
Tuttavia i due movimenti, nella psiche umana, sono compresenti, non sono separabili. Se qualcosa dentro di noi sale, qualcos'altro si prepara alla caduta, e viceversa. A questo proposito, afferma Bachelard:
(...) "Mille impressioni fanno variare il nostro peso psichico, che é veramente un peso immaginario.
Potendo addentrarci in uno studio minuzioso delle nostre esperienze oniriche, forse potremmo educarci a combattere la nostra gravosità, a guarire delle nostre pesantezze (...)."

L’uomo sente costantemente l’esigenza di conoscere il significato della propria vita, ma percepisce anche che i concreti scopi che persegue non riescono a riempire questo senso di vuoto interiore.
Vorrei riportando un testo gnostico tratto dagli Atti di Tommaso e chiamato dai commentatori Inno alla Perla, introdurre il tema dell’appello, della chiamata che tenta di interrompere la coatta consuetudine nevrotica.
Questo è un tema molto frequente nei miti che riguardano il percorso dell’uomo-eroe che ad un tratto vede sconvolgersi la tranquillità della propria esistenza e si trova coinvolto, apparentemente suo malgrado, in un’esperienza che lo trasformerà e che gli farà incontrare parti sconosciute di sé.

"Quando ero bambino e abitavo nel regno della casa di mio Padre e mi dilettavo della ricchezza e dello splendore di coloro che mi avevano allevato, i miei genitori mi mandarono dall’Oriente nostra patria, con le provviste per il viaggio. Delle ricchezze della nostra casa fecero un carico per me: esso era grande, eppur leggero, in modo che potessi portarlo da solo.
Mi tolsero il vestito di gloria che nel loro amore avevano fatto per me, e il manto di porpora che era stato tessuto in modo che si adattasse perfettamente alla mia persona, e fecero un patto con me e lo scrissero nel mio cuore perché non lo potessi scordare:
"Quando andrai in Egitto e ne riporterai l’Unica Perla che giace in mezzo al mare, accerchiata dal serpente sibilante, indosserai di nuovo il tuo vestito di gloria ..."
Lasciai l’Oriente e mi avviai alla discesa, accompagnato da due messi reali, poiché il cammino era pericoloso e difficile ed io ero troppo giovane per un tale viaggio (...).
Scesi in Egitto e i miei compagni mi lasciarono.
Mi diressi deciso al serpente e mi stabilii vicino alla sua dimora per potergli prendere la Perla.
Mi vestii con i loro abiti, perché non sospettassero di me (...).
Ma in qualche modo si accorsero di me, mi mescerono nella loro astuzia una bevanda e mi dettero da mangiare della loro carne; io dimenticai la Perla per la quale i genitori mi avevano mandato.
Per la pesantezza del loro cibo caddi in un sonno profondo. I miei genitori avevano notato tutto quello che mi accadeva ed erano afflitti per me. E mi scrissero una lettera firmata col nome di ciascuno dei grandi.
"Da tuo padre, il Re dei re, e da tua madre, signora dell’Oriente (...)
Svegliati e sorgi dal tuo sonno, e intendi le parole della nostra lettera.
Ricordati che sei figlio di Re (...)
Poni mente alla Perla per la quale sei partito."
Come un messaggero era la lettera del Re, si levò in forma di aquila, re di tutti gli alati e volò finche discese vicino a me e divenne interamente parola.
Al suono della sua voce mi svegliai e mi destai dal sonno; (...) Conformi a quanto era stato scritto nel mio cuore si potevano leggere le parole della mia lettera.
Mi ricordai che ero figlio di Re e che la mia anima, nata libera, aspirava ai suoi simili. Mi ricordai della Perla per la quale ero stato inviato e cominciai ad incantare il serpente sibilante, lo indussi al sonno invocando su di lui il nome del padre mio, presi la perla e mi volsi per tornare a casa da mio padre.
Mi spogliai dal loro vestito sordido e impuro e lo abbandonai nella loro terra; diressi il mio cammino onde giungere alla luce della nostra patria, l’Oriente.
Trovai la lettera che mi aveva ridestato davanti a me sul mio cammino; e, come mi aveva svegliato con la sua voce, ora mi guidava con la sua luce che brillava dinanzi a me; e con la voce incoraggiava il mio timore e con il suo amore mi traeva.
(...) I miei genitori mandarono incontro a me a mezzo dei loro tesorieri, a cui era stato affidato, il vestito di gloria e il manto che avevo tolto.
Avevo dimenticato il suo splendore (...) e ora mentre lo osservavo mi sembrò che diventasse uno specchio-immagine di me stesso, mi vidi tutto intero in esso ed esso tutto vidi in me (...) e così parlò:
"Sono io che ho agito nelle azioni di colui per il quale sono stato allevato nella casa di mio padre, ed ho sentito in me stesso che la mia statura cresceva in corrispondenza delle sue fatiche".

Il racconto ci narra della discesa dello spirito e della sua risalita nei mondi di luce, della perdita progressiva che lo spirito affronta nella discesa abbandonando certe sue caratteristiche che ritroverà però ad attenderlo durante la sua risalita. Ci racconta anche come lo spirito perda progressivamente nel percorso della sua umanizzazione la consapevolezza di se, ma ci racconta anche che nonostante il torpore che patisce nella sua forma umana conservi nel cuore la Memoria del patto originario; e ci ricorda come la lettera che viene nel mondo riattivi l’anima addormentata e la spinga verso il viaggio di ritorno.
Ma nella vita di tutti i giorni, l’uomo come può ascoltare la chiamata?
"....a non pochi accade di essere chiamati dalla propria voce interiore; allora essi diventano immediatamente diversi dagli altri e si sentono posti di fronte ad un problema che gli altri ignorano".
Questo è il momento della crisi, è il momento dove la diversità percepita come isolamento ci obbliga a rivedere il nostro rapporto con il mondo.

Di norma il termine chiamata o vocazione individuale, è usato per definire la chiamata che una divinità rivolge all’uomo perché scelga la via religiosa; ma nel nostro caso l’atteggiamento religioso non costituisce più il desiderio di seguire le regole di una credenza confessionale che parla di spirito, ma direttamente lo spirito che parla attraverso il linguaggio simbolico.A questo proposito possiamo pensare al sogno, linguaggio simbolico per eccellenza, come ad una lettera carica di senso che, quando la coscienza razionale attenua il suo controllo, si presenti nella nostra psiche con il compito ed il fine di richiamare il nostro cuore al suo patto originario. I sogni sarebbero allora un tentativo di quella Memoria nascosta dentro di noi che ci chiede di ricordare, usando di nuovo le parole di Tommaso, la "perla per la quale siamo stati inviati".
Riconoscere nell’uomo l’esistenza di un piano spirituale attivo rappresenta una rischiosa posizione di verticalizzazione dell’esperienza umana con un tentativo continuo di spiritualizzare la materia, cioè di togliere alla materia per dare allo spirito pensando che i due estremi non possano essere compatibili.
Ma abbiamo visto anche nel nostro racconto che la vita va vissuta e che il tentativo di starne ai margini per non farsi contaminare non funziona; questa va vissuta, direi rischiata, nella pienezza delle sue contraddizioni perché queste, che ci appartengono per nascita, sono inscindibili dalla nostra evoluzione. In questo caso spiritualizzare la materia è un voler pensare a relazioni ideali non accettando l’imperfezione della realtà materiale.
Penso che il processo, in questo senso, debba invertirsi e rendere quindi sempre più presente, incarnato, lo spirito nella vita quotidiana in una sorta di continua sua materializzazione.
Se ciò accadesse, la sventura si muterebbe in accadimento, il sintomo in simbolo; il mondo circostante rappresenterebbe un'indicazione continua utile alla conoscenza di sé.

Siamo abituati dalla tradizione collettiva a definire luce il bene e male lo scuro, la psicologia analitica parla di ombra rimossa, sosteniamo che dentro di noi ci sono zone d'ombra che devono chiarirsi, un problema è oscuro e via di seguito sul filo della simbologia della luce e dell'ombra. La coincidenza di termini porta a pensare che ci si trovi in presenza di una realtà archetipica, preesistente, cioè facente parte di una "realtà antecedente a quella composta di tre dimensioni in cui stiamo vivendo questa esperienza psichica".
In ogni percorso sia esso psicologico, fisico o spirituale occorre all’origine del moto una differenza di potenziale, che sia finalità di movimento. Molti dei processi psicologici compensatori che ci legano agli altri ne sono esempi manifesti. Anche lo spirito dell’uomo è soggetto a questa legge per proseguire nel suo percorso evolutivo. Le dissonanze vibratorie che esistono a livello spirituale, si ritrovano presenti nella mente dell’uomo in potenziali dissonanze psicologiche; ma queste potranno essere definite complessi psicologici solamente dopo che saranno state ferite dal confronto con la realtà umana.
Il senso della vita è molto più ampio della relazione causa-effetto in cui l’io razionale tenta di confinarla. Le ferite dell’anima sono molto più profonde di quanto il meccanicismo psicologico ci faccia intendere, e comunque la risoluzione di un complesso ha risonanze ben più ampie della relazione causale quotidiana.
Il problema psicologico così delineato si configura come un problema spirituale e viceversa. Quindi, l’esame del tema individuale, ci fa intuire che trova anche una corrispondenza nell’approfondimento del percorso spirituale.
E allora, se sul piano mentale siamo di fronte ad un sintomo, sul piano psichico ci incontriamo con il simbolo, di conseguenza tutto ciò che è reale sarà ugualmente simbolico e contemporaneamente spirituale.

Jung probabilmente accennava a questo quando affermava che nessuno può guarire veramente se non si ricollega al proprio aspetto religioso dove il termine religioso indicava il tema spirituale individuale.
Il sogno che un tempo era mandato dal dio per ristabilire una realtà umana toccata dalla malattia o dal disagio, viene a rappresentarsi qui come un’esperienza spirituale.
Le immagini del sogno si compongono di persone e situazioni note e ignote, di mostri, di cose lontane nel tempo ma ancora presenti a nostra insaputa nella memoria; queste riprendono vita nei nostri sogni con significato.
La psiche in questo modello strutturale è l’organo che interfaccia lo spirito con la vita di relazione. I messaggi dello spirito transitano in questa zona vestendosi di immagini esistenti nella nostra memoria, che saranno le più vicine e le più congrue con il contenuto del messaggio spirituale.

Sul piano concreto non c’è una ragione per sognare una persona o un luogo che solamente una volta e tanto tempo fa abbiamo incontrato, ma sul piano emotivo a questa persona o situazione sono legate valutazioni proiettive che l’inconscio, molto preciso e puntuale nella scelta dei personaggi, ripropone narrandoci attraverso il sogno i nostri limiti.
La persona o la situazione, hanno in questo modo, una valenza simbolica di rimando alla nostra sensazione collegata.
I sogni provengono dall’inconscio dell’uomo, ma questo inconscio, di cui noi parliamo potrebbe allora essere la rappresentazione della coscienza dello spirito.

Mi sembra appropriato concludere con una definizione di Jung sul sogno:
"Il sogno è la piccola porta occulta che conduce alla parte più nascosta ed intima dell’anima, aperta sull’originaria notte cosmica che era anima assai prima che esistesse una coscienza dell’io, e che sopravviverà come anima a tutti i prodotti della coscienza dell’io, giacché ogni conoscenza dell’io è isolata e conosce il singolo in quanto divide e separa e vede solo ciò che ha rapporto con questo io. La coscienza dell’io consta di pure limitazioni, anche quando si estende alle più lontane nebulose stellari.
Ogni coscienza divide: ma col sogno noi penetriamo nell’uomo più profondo, universale, vero ed eterno, ancora immerso in quella oscurità della notte primitiva in cui egli era il tutto e tutto era in lui, nella natura priva di ogni differenziazione e di ogni "essere io".
Da una tale profondità, collegante il tutto, nasce il sogno, per quanto infantile, grottesco e anormale che sia."

 

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Antonio Tirinato - Centro Icone

Intervento tenuto all’Istituto N Stensen il 25\11\95

nell’ambito del ciclo - Percorsi di vita simbolica anno III°