FATTI PSICHICI 

D'un tratto

il cuore si spacca

suda di vivido sangue

la pietra...

La natura psicofisiologica rende l'uomo schiavo della necessità, lo induce ad agire secondo impulsi dettati da istinti, desideri e passioni, da quanto comunemente viene definito dagli orientali "brama".

Istinti, desideri e passioni si manifestano nella psiche secondo le leggi della memoria associativa. È questa una memoria di tipo animale, in cui sono stratificati gli impulsi della razza, della famiglia, in ultima analisi dell'ereditarietà. È un processo associativo nel quale si associano sensazioni, immagini, pensieri, stati d'animo, che si stimolano reciprocamente, secondo una sequenza automatica: ad esempio, il profumo delle arance al mercato può far ricordare una scena dolorosa, ormai dimenticata, avvenuta parecchi anni prima in un ambiente caratterizzato da tale profumo.

Questo gioco associativo di stati psichici ha le caratteristiche dell'imprinting, l'apprendimento percettivo animale descritto da K. Lorenz e si presenta secondo i caratteri ineluttabili della necessità.

Per tale via i contenuti psichici inferiori connessi con la natura psicofisica affiorano come complessi autonomi, indipendenti dalla coscienza e dominano l'io secondo un meccanismo automatico ed ossessivo. Il campo della coscienza viene invaso da immagini e pensieri, che si ripetono all'infinito e determinano i nostri stati d'animo.

Nel gioco complicato di paura della frustrazione, di desiderio dell'esaudimento, di repressione e rimozione di impulsi istintuali ed emotivi si manifestano di volta in volta stati d'animo devastanti: angoscia, ansia e depressione ci assalgono.

Pensieri monotoni ed ossessivi, come fantasmi perversi, si nutrono delle forze di vita dell'uomo rendendolo inerme: il pensare sempre più confuso, la volontà sempre più debole, la sofferenza del sentire sempre più forte. È lo stato di assedio che ci rende ogni giorno più deboli. Ci lasciamo andare naufraghi nel mare degli istinti e delle emozioni.

Percepiamo solo il nostro dolore ed abbiamo paura di fare il benché minimo movimento; oppure per sfuggire a tale dolore siamo presi da un esagerato attivismo e ci gettiamo in attività frenetiche, che depauperano ancora di più le nostre energie.

L'attaccamento ai desideri, nell'attesa che siano esauditi, nel timore che siano frustrati, condiziona così la nostra esistenza. È il meccanismo automatico del principio del piacere. È lo stato di necessità, che rende la volontà impotente, schiava di un determinismo fisiopsichico inarrestabile.

Se predomina il sentimento i contenuti psichici irrompono nella coscienza ed è l'inflazione, se predomina la razionalità si accresce l'emozione istintuale ed inconscia. L'istinto, che si scatena come impulso sessuale ed aggressivo, offusca il pensiero. Quando è represso, si manifesta come paura, moralismo e senso esasperato del dovere. Se invece è in eccesso, impedisce lo sviluppo di una sana razionalità.

Bisogna ristabilire una gerarchia interiore, l'impulso deve essere riconosciuto, finalizzato e trasformato mediante l'accordo di pensiero e volontà.

Sono le leggi della natura psicobiologica dell'uomo, esse recano dolore, ma indicano contemporaneamente il fine ultimo del loro essere: la trasformazione.

Vanno riconosciute ed accettate. Le manifestazioni psichiche costituiscono la materia prima dell'Opera nel processo di metamorfosi dell'anima.

Alchimia interiore.

Qualsiasi tentativo di trasformazione che non parte dalla conoscenza e dall'accettazione di noi stessi, per quanto imperfetti possiamo essere, è destinato a fallire.

Le nostre imperfezioni vanno accettate con umiltà: ogni errore può essere nostro maestro. Come il bimbo cade più volte prima di arrivare ad essere padrone dei suoi movimenti, così l'uomo può trarre dai suoi errori profondi insegnamenti.

Si tratta di attuare un processo di autoeducazione permanente.

Gli impulsi istintuali, con il loro carattere di necessità, determinano meccanismi di attrazione e repulsione: nell'impatto con essi si sviluppa una prima forma di coscienza, quella dell'anima senziente. Quando gli istinti sono repressi, si manifestano sotto forma di rigida moralità e razionalità, se sono invece scatenati pietrificano l'io ad un livello di coscienza quasi esclusivamente sensoriale ed emotivo; le modalità esasperate della coscienza razionale affettiva, quando non vi è equilibrio interiore.

Riconoscere ed accettare l'esistenza di vissuti emotivi ed istintuali, anche se scomodi, è azione interiore che ci stimola a dirigerli e finalizzarli. Possiamo trasformarli.

Come si può, una volta che sono stati riconosciuti ed accettati, iniziare quel processo di educazione permanente cui accennavo?

Ci rendiamo spesso conto che vogliamo cambiare, ma il pensiero, sconnesso dalla volontà, risulta impotente.

Si tratta di allenarci pazientemente, ogni giorno, con esercizi di volontà e di concentrazione al fine di percepire la forza che si manifesta nel pensiero attivato dalla volontà.

Infatti di tale percezione non siamo quasi mai coscienti, se non per rare eccezioni, quando cogliamo, quasi per caso, il lampeggiante movimento di pensiero, magico manifestarsi della vita, nel momento intuitivo.

È necessario imparare a coltivare tale consapevolezza sacralmente, se vogliamo accedere, come uomini, alle soglie della conoscenza. 

Nell'intuizione è il potere di vita del pensiero.


SENSO DELLA SOFFERENZA: LA MALATTIA 

La pietra che chiude la tomba

in cui è sepolto il mio cuore

richiede impietosita

la sua e la mia metamorfosi

La malattia è stata quasi sempre considerata in termini di causa ed effetto, sia la medicina tradizionale che la psicoterapia si sforzano di eliminarne le cause: l'una con l'ausilio della chirurgia e della chimica, l'altra elaborando sintomi e complessi.

In uno scritto sul fenomeno psicosomatico, che mi è capitato di leggere alcuni anni fa, l'autore prendeva in esame la malattia da un punto di vista molto interessante. Nel tentativo di introdurre nella psicoterapia la visione dei terapeuti dell'antichità, la malattia veniva considerata come conseguenza dell'azione divina, risultato di una trasgressione nei confronti di un potere divino. La possibilità di guarigione era condizionata dal tipo di risposta che sarebbe stata data alla richiesta divina: cosa vuole il Dio in me, non cosa voglio io(1).

L'idea mi sembrava giusta, ma qualcosa non quadrava.

Riflettevo: chi è questo Dio e cosa vuole?

Di nuovo si poneva la questione dell'inconscio. Inconscio è ciò che non rientra nel campo della mia

conoscenza, qualcosa di cui io non sono consapevole.

Ecco. Io non sono consapevole.

Nella frase: cosa vuole il Dio in me, il soggetto è il Dio.

Un Dio sconosciuto, che vive nel mio inconscio. A chi mi affido?

Come abbiamo visto, quando l'uomo si addentra in zone sconosciute della psiche, può rimanere travolto da forze che sono più potenti di lui. È evidente che non posso affidare ad un Dio nell'inconscio la forza che mi appartiene come io, potrei rimanerne travolto.

È necessario che io sia dapprima consapevole della presenza della forza dell'io. È la stessa forza che unisce percezione e concetto nel processo di conoscenza, è il potere di identità fra pensiero ed io,il quale è l'elemento primo e fondamentale della coscienza.

Nella corporeità l'Io originario si manifesta come io (ego). L'io ha coscienza limitata, non è consapevole della sua sostanza spirituale, è debole fino al punto di soccombere nell'impatto con le forze della psiche, ma non possiamo per questo privarlo della sua funzione di soggetto. Come dicevo, è l'elemento primo ed originario, che si esprime nella coscienza in qualsiasi processo si conoscenza.

Anche se fragile attraverso la sofferenza l'io può infine scoprire se stesso come presenza dell'Io.

Questa è la richiesta celata che si manifesta nel dolore e nella malattia.

Quando consideriamo sofferenza e malattia come richieste dell'inconscio e focalizziamo tutta la nostra attenzione sui messaggi che l'inconscio ci invia, spostiamo l'io, centro della coscienza dell'uomo, alla

periferia. In tal modo l'inconscio assume funzione e carattere di centralità. Anche se in apparenza ci da nuove informazioni, in realtà distoglie la nostra coscienza dalla consapevolezza che noi stessi siamo l'espressione reale dell'elemento originario.

Elaborando l'immagine di Platone vorrei usare una metafora per spiegarmi meglio8. Immaginate una carrozza tirata da una pariglia di cavalli: la carrozza è il nostro corpo fisico, i cavalli le nostre emozioni ed i nostri istinti, l'auriga l'ego, che esprime la fragilità dell'Io nella materia, il tutto in movimento la vita. Se l'uomo si addormenta, la carrozza può venire trainata ovunque. Percorrerà una strada piana e tranquilla o si sfascerà in un dirupo.

Certo mi si può obbiettare che non conosco bene né l'ambiente, né la carrozza, né i cavalli ed in massima parte è vero. A maggior ragione io, uomo a cassetta, voglio essere sveglio e presente, non posso perdere la centralità di me stesso.

Infatti proprio la non consapevolezza dell'io in quanto essenza spirituale genera quella debolezza, per mezzo della quale forze psichiche inferiori si appropriano della sostanza predialettica del pensiero (2) sollecitano l'agire istintuale ed emotivo dell'uomo.

L'io, succube degli stati d'animo, si muove per astratti pensieri e perde la connessione con la propria reale sostanza.

Inerme ed inconsapevole pone le sue forze a servizio di potenze sconosciute e pericolose.

In fondo la frase "io non sono consapevole", pur essendo vera, è una contraddizione in termini. In realtà esprime la consapevolezza di non essere consapevole.

In effetti l'Io trascendente, che riteniamo non presente è già realizzato, ci troviamo soltanto in uno stato di oblio transitorio. Se riflettiamo, possiamo riconoscere che l'essenza spirituale si manifesta fin da ora in tale consapevolezza.

Possiamo farne affiorare la memoria...

Nell'oblio di se stesso l'uomo segue ciecamente istinti e passioni: Psiche si oppone al principio interiore, l'Io.

Come Psiche, tentata dalle sorelle malvagie, l'anima umana disubbidisce all'ordine impartitole da Amore.

Narra il mito che, mentre il Dio dormiva, ella gli si avvicinò con una lampada per godere della sua vista nonostante il divieto. Amore, bruciato da uno schizzo d'olio della lampada, si svegliò e sparì per sempre. Disperata Psiche lo cercò invano, ma poté incontrarlo di nuovo solo a prezzo di terribili sofferenze.

L'uomo, incapace di ristabilire l'ordine fra le forze dell'anima secondo un accordo di pensiero e volontà, si ammala.

Solo attivando il pensiero con la volontà può sperimentare la forza formativa del pensiero e riconoscerla come potere di risoluzione.

Può intuire la Realtà nella realtà.

Tale intuizione lo muove ad accettare gli eventi tragici della vita come momenti di conoscenza e di trasformazione.

Accettando la sofferenza ed il dolore collabora con le forze dello spirito e supera quello stato di pseudolibertà, nel quale si estrinseca solo la sua natura inferiore.

L'opposizione al principio interiore genera sofferenza.

Nel tentativo di sfuggire al dolore più opponiamo resistenza, più ne restiamo travolti.

Il dolore è voce che chiede di riconoscere in noi l'essere divino di cui ancora non abbiamo consapevolezza. Voce inascoltata. L'uomo identificato nella natura resiste e crea i presupposti di nuovo dolore. Si cerca la causa della sofferenza e della malattia, si tenta una cura ed anche si guarisce, ma non è reale guarigione. Il sintomo si manifesterà sotto altra forma, perché la vera radice del male non è stata scoperta. Quella richiesta di trasformazione non è stata esaudita: passa dall'anima al corpo e dal corpo all'anima in un'altalena incessante. Per spezzare questo cerchio perverso c'è solo un modo: accettare la sofferenza per conoscere e trasformarci.

Pronunciare un fiat. Così sia...

In quel momento il tempo si ferma ed è interminabile: è il vuoto. Non accade il miracolo, che vorremmo immediato.

Nel vuoto lentamente nasce la coscienza del nostro vero essere. Percepiamo una debole luce che cresce ogni giorno di più e ci fa sentire in armonia con la realtà quotidiana, per quanto dolorosa essa sia. Il dolore ci rende consapevoli, ci forgia, ci permette di scoprire una realtà "altra". Dentro ed oltre i fatti quotidiani scopriamo un tessuto vivente che era celato.

È la metamorfosi. Nell'arrendersi si manifesta la vita: il seme si disfa e da vita al tenero germoglio.

Il fiat non è passività, né morbosa ricerca del dolore, che sarebbe perversione masochista. È una delle più potenti azioni interiori. È la vittoria sulla paura, che ci tiene aggrappati alle situazioni, anche le peggiori, e non ci fa abbandonare alla corrente della vita.

Tutto scorre, tutto è in movimento.(3).

L'arrestarsi... il voler trattenere o respingere secondo i desideri, inaridisce l'anima e la uccide lentamente.

Il fìat è un morire per rinascere ed esige coraggio.

Nel divenire della vita Io sono. 

 


 

IL PENSIERO LUCE DELL'ANIMA 

La luce originaria

stella caduta

risplende inconsapevole

 

L'uomo ha in comune con la pietra la mineralità, con la pianta la crescita e lo sviluppo, con gli animali le emozioni e gli istinti. Riunisce in sé i tre mondi (minerale, vegetale ed animale), ma contemporaneamente se ne distingue per il fatto che pensa, è cioè in grado di sintetizzare mediante il pensiero i dati della percezione e di formulare idee e concetti.

Qualsiasi oggetto, creato dall'uomo, anche il più insignificante, è frutto di pensiero; per poterlo ottenere è stato prima pensato.

Esaminiamo ad esempio la costruzione di un tavolo. Viene dapprima progettato, si sceglie poi il legno adatto, che viene tagliato secondo le misure volute, successivamente, montati i vari pezzi, viene rifinito: per fare tutto ciò più di un uomo ha tratto le sue azioni dal pensare...

Eppure l'uomo non è consapevole della sua attività pensante: usa il pensiero inconsciamente. Non conosce la forza che possiede.

Crediamo di essere padroni dei nostri pensieri, ma in effetti non lo siamo, dato che non ne sperimentiamo l'interno movimento. Questo movimento è la vita interna al pensiero. Sfuggendoci la vita del pensiero, usiamo un pensare mediato dagli istinti e dalle emozioni: è un pensare riflesso dalla corporeità, dalla natura psicobiologica.

È luce che manca del suo interiore calore di vita.

Usiamo il pensiero, ma non ne sperimentiamo la dynamis.

Riteniamo che la forza, che possiamo riconoscere come movimento in un' intuizione improvvisa, appartenga all'oggetto dell'idea: non ci rendiamo conto che quel movimento è il potere formativo dell'idea. Non siamo coscienti del potere di sintesi, per mezzo del quale possiamo mettere insieme i dati della percezione, per cui ad esempio da una serie di elementi quali colore, suono, forma, movimento possiamo trarre il concetto di gatto.

Di tale forza che sfugge alla nostra consapevolezza si impadroniscono istinti ed emozioni.

Correnti istintuali ed emotive, che dovrebbero essere dominate dal nostro pensare vivo, ci dominano; da cui il nostro agire coatto, raramente libero. Il pensiero, forza di donazione impersonale, viene strumentalizzato dalle inferiori forze del sentire e del volere.

Poiché l'uomo non sperimenta il pensiero nel suo momento formativo e predialettico, conosce soltanto il pensiero dialettico, astratto, che è morto pensare.

Infatti il pensiero riflesso si muove per astratti pensati secondo un processo logico dialettico in sé perfetto, ma essenzialmente privo di vita. Tale pensiero è funzionale e pertinente alla sfera della materia, ma non permette una reale conoscenza, essendo legato esclusivamente ai dati del sensibile. Con esso progettiamo razzi che vanno sulla luna, ma non siamo in grado di scoprire il mistero della vita che si cela in un fiore...

Attraverso questo tipo di pensiero si manifestano le forze di distruzione della psiche.

Per mezzo di meccanismi automatici, che sfuggono alla nostra coscienza, le inferiori forze del sentire e del volere manovrano il nostro pensare, del quale non siamo in grado di percepire l'attività. Sono forze di separazione e di avversione: separano l'uomo dall'uomo e l'uomo da se stesso.

Nella ricerca inarrestabile del soddisfacimento dei nostri desideri, secondo l'istinto del piacere, e spinti all'aggressività ed all'autodistruzione dall'istinto di morte, dimentichiamo la nostra natura spirituale.

Condizionati da forze istintuali ed emotive, immersi nelle sensazioni, inconsapevoli del movimento vivo del pensiero, ci arrestiamo di fronte a noi stessi, incapaci di conoscere una realtà più vasta: l'immanenza del divino in noi e nel mondo.

Come ridare vita al pensare così disanimato?

Possiamo farlo con il fuoco della volontà. Con un atto di volontà possiamo ristabilire quel circuito magico di calore di vita e di luce di pensiero.

Se con volontà ci immergiamo consapevoli in un processo di pensieri, consequenziali l'uno all'altro, e li osserviamo nel loro svolgersi dinamico, scopriamo la forza che li unisce e li forma, il flusso continuo che scorre inarrestabile dall'uno all'altro. Un esercizio quotidiano, costante e paziente, ci permette di essere spettatori consapevoli di quel movimento, di percepire l'interno potere di sintesi, che di solito ci sfugge.

La forza di concentrazione volitiva ristabilisce il circuito interrotto di pensiero e volontà e si rivela terapeutica.

Illumina come il sole l'anima, mette in fuga i fantasmi che ci perseguitano: le idee nevrotiche ossessive, l'ansia, l'angoscia, la paura si dissolvono...

Lentamente impariamo a dirigere l'attività dei nostri pensieri, a muoverci da una zona dell'anima all'altra, da uno stato d'animo all'altro. Concentrandoci volitivamente scopriamo che la forza che immettiamo in un processo di pensiero si sviluppa-sempre più e che possiamo usarla per distogliere la nostra attenzione da stati d'animo e pensieri che ci tengono avvinti malgrado la nostra volontà.

Capisco che questa azione possa essere facilmente scambiata per rimozione, cioè per una inconsapevole volontà di ignorare il problema, ma non è così. La rimozione è per definizione inconscia. Nel nostro caso il processo è esattamente il contrario: è fondato sulla coscienza. Io sono consapevole di essere arrabbiato o tormentato da un pensiero, so anche che questo stato mi impedisce di agire, perché distoglie la mia presenza da quanto mi accade intorno, di conseguenza decido di liberare la forza che mi viene sottratta dall'ossessione, in qualsiasi veste si manifesti, e la dirigo altrove.

Poiché si tratta di ristabilire il circuito interrotto fra pensiero e volontà, possiamo ricorrere ad esercizi che ci possono aiutare in tal senso. Trascrivo qui di seguito due esercizi che possiamo praticare ogni giorno. Il primo ci rende consapevoli della connessione io, pensiero e coscienza nell'attività pensante, il secondo sviluppa la volontà (4):

 

1 - Concentrazione: seduti in posizione rilassata, senza alcuna tensione nervosa, analizziamo mentalmente un oggetto molto semplice, costruito dall'uomo, ad esempio una matita: ne descriviamo la forma, il colore, le dimensioni, il materiale, la funzione, eccetera; l'esercizio va eseguito per un periodo di tempo molto breve, tre - cinque minuti, durante i quali si può ripetere la descrizione; successivamente con la pratica possiamo aumentarne la durata.

 

2 - Esercizio di volontà: decidiamo di compiere, ad una determinata ora della giornata, un'azione, da noi scelta, che puntualmente eseguiremo all'ora stabilita; è importante che sia un'azione senza significato per noi, altrimenti sarebbe condizionata da stati d'animo; si tratta invece di attuare un agire senza scopi, un agire per l'agire.

Questi esercizi sviluppano una volontà non istintuale e ci rendono testimoni consapevoli della dynamis celata nel pensare.

Possiamo percepire l'essere del pensiero nel fondamento di noi stessi: potere di identità fra io e pensiero. Possiamo sperimentare la forza, che è movimento, forma e potere di sintesi del pensiero.

Perfino nello stesso processo percettivo in noi non siamo consapevoli. Percepiamo, ma non siamo coscienti che nell'atto percettivo è presente lo stesso potere di sintesi del pensiero.

A questo proposito, dopo aver fatto abbastanza esperienza nella pratica della concentrazione, possiamo allenarci con un esercizio di percezione pura (5): osserviamo un oggetto della natura (minerale, pianta o paesaggio) in un profondo stato di concentrazione  interiore,  senza interferire minimamente

con pensieri di nessun genere, nemmeno riguardanti l'oggetto stesso.

Percezione e pensiero ci sfuggono, ma possiamo, volitivamente, essere gli spettatori consapevoli della forza, che li anima. Possiamo percepire l'attività, che si manifesta, inosservata, in ogni processo di conoscenza e riconoscerla identica alla nostra stessa essenza: questa forza è identità d'amore.

Nel fuoco della volontà si rianima di vita la luce del pensare.

 


 

Note

(1)-  Stein R.,Body and Psiche. An archetipal view of psichosomatic phenomena in spring 1976.

(2) - Platone, Fedro 246.

(3) - Eraclito, Frammento, 22bl2 DK, 22B9 1 DK.

(4) - Scaligero Massimo, Manuale pratico della meditazione, Teseo, Roma 1972, pp 25, 28, 33, 41, 145, 146.

(5) - Ibidem pp 45 - 50.

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