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Professione e dintorni

Freud nel suo saggio del 1926, "Il problema dell’analisi condotta da non medici", conversando con un "interlocutore imparziale" fotografa, a mio parere, l’insicurezza profonda dello psicologo e più precisamente dice: "Se Lei imposta un problema di fisica o di chimica, ognuno che non sia sicuro delle proprie "cognizioni tecniche" si affretterà a tacere. Ma se Lei invece enuncia un’affermazione psicologica, deve essere disposto ad affrontare il giudizio e l’opposizione del primo venuto. Pare proprio che in questo campo non esistano "cognizioni tecniche". Ognuno possiede una propria vita psichica e perciò ognuno si ritiene psicologo."
Tutti abbiamo vissuto durante la nostra vita professionale questa scena, e non possiamo negare che la posizione del nostro interlocutore ci abbia anche indispettito perché con il suo atteggiamento metteva in discussione una competenza che noi davamo per scontata. Tutte le volte che ciò è accaduto però, ci è stato permesso di misurare la nostra insicurezza e soprattutto le convinzioni che ci sostenevano sul piano professionale. Il disagio che ci siamo trovati a vivere ci ha permesso di riflettere sul senso del nostro processo di individuazione.
Ma ora immaginiamoci che questa giovane scienza, di antica sapienza, si sieda come paziente sulla nostra poltrona e che, fra un’incertezza e un’altra, cominci il racconto della sua difficile esistenza. Quante di queste storie di insicurezza abbiamo ascoltato nella nostra vita professionale e quante volte siamo rimasti attoniti vedendo bene i valori e le qualità inespresse di quella persona spaurita che si racconta davanti a noi!
La ricerca di rassicurazione e di conferme da parte del paziente è continua; ma è anche forte il bisogno di trovare una strada univoca, certa e sicura all’interno della quale la persona possa condividere, con modelli educativi preesistenti e accettati dal comune pensiero, la responsabilità delle proprie scelte. Lo sforzo di adattamento genera in ogni caso disagio e allora i riferimenti certi della famiglia, dell’educazione ricevuta non bastano più a garantire il percorso intrapreso.
La richiesta di "salute", star bene e basta, si trasforma in richiesta di "salus", armonizzazione tra interno ed esterno.
Quando i tentativi per farsi accettare sono diventati dolorosi compromessi con se stessi che cosa resta se non la dignità del proprio sentire?
La psicologia oggi si comporta come il paziente tipo che racconta i propri disturbi e ne attribuisce le cause ai suoi familiari che non lo capiscono, che non lo assistono e sostengono senza mai farsi carico, in modo critico, della propria insicurezza e mancanza di espressione. Restiamo immobili in vecchie dinamiche ormai consunte lamentandoci di un potere che non ci viene dato o di un riconoscimento che tarda ad arrivare. In tutti i dibattiti e in tutte le indagini fatte risulta evidente il grande frazionamento della categoria che, anche se protetta e organizzata da un Ordine e riunita in un Albo, ancor oggi rimane esclusivamente una lista anonima di individui che fanno cose simili.
Quando tutto ciò non c’era, la figura dello psicoterapeuta, dell’analista allora, era una figura di secondo piano che veniva tollerata con bonarietà dalla cultura e dalla scienza ufficiale con un atteggiamento del tipo: "Lascia il tempo che trova, basta che non faccia danni, altrimenti…" In quel tempo la divisione fra medicina e psicoterapia era veramente netta e lo studio dell’analista non medico era paragonato all’antro fumoso dell’alchimista che operava senza alcun rigore scientifico.
In questo senso la legge, il riconoscimento ufficiale ci voleva ed ha fatto molto! In pratica ha azzerato una situazione di lotta intestina tra centri di potere che si attribuivano la paternità del sapere psicologico.
Contemporaneamente però il riconoscimento ha risvegliato anche tutte le frustrazioni di una categoria che operava in ombra e che non si sentiva né riconosciuta né autorizzata. La rivalsa, scaturita da questa situazione ha spesso messo gli psicologi nella condizione di promuovere l’uso di terapie sempre più brevi e rivolte al sintomo; terapie che sono più simili ad una pasticca che ad una visione del mondo.
In questa visione sintomatica e causale dell’esistenza l’anima dell’uomo si è sempre più ritirata nei recessi misteriosi della psiche lasciando campo libero al corpo. Di conseguenza la vecchia lotta fra ragione e sentimento, fra corpo e anima, tra medicina e psicoterapia e, vorrei anche aggiungere, tra segno e simbolo, si sono esasperate immobilizzando da un lato la vita spirituale dell’individuo, che altro non è se non tendenza all’unione, dall’altro producendo un sapere sempre più certo e tecnicamente ineccepibile.
Quanti di noi di fronte ad un paziente non hanno desiderato avere un farmaco che risolvesse una volta per tutte quel problema che continuava a presentarsi ostile, resistente a qualsiasi intervento e che nella sua persistenza ci rendeva impotenti e frustrati? L’onnipotenza terapeutica era ferita ed il prestigio messo a dura prova!
Il paziente deve guarire per la gioia del terapeuta che ha bisogno di essere confortato nella sua capacità taumaturgica. Le cose non stanno certo così, questo è un paradosso e non riguarda certo nessun collega, ma… una piccola tentazione è venuta a tutti!
L’attenzione del professionista (non faccio in questo caso distinzioni fra pubblico e privato) si sposta sempre più sul metodo scatenando una lotta sottile e sotterranea fra scuole, convinzioni e visioni del mondo dove la nostra è sempre e sicuramente la migliore, e gli altri … poverini loro!

In questo folle vortice competitivo ci si dimentica costantemente che ciascun metodo è il migliore, ma lo è solo per noi che l’abbiamo scelto, spero, perché corrispondeva alle nostre aspettative ed alla nostra storia personale.
A questo proposito mi sembra importante citare un vecchio articolo di A. Carotenuto dal titolo: "Il non detto della psicoanalisi" con un sottotitolo di notevole impatto e significato: "Una professione che implica un processo analitico senza fine, un continuo fare i conti con l’ombra del proprio disagio".

" Agli inizi della psicoanalisi, il trattamento analitico viene concepito e descritto come un procedimento il cui fine è quello di scoprire qualcosa, un quid che l’individuo cela sepolto nelle zone più buie della psiche, e del quale non è cosciente. (…) Tuttavia nel corso del secolo che ci separa dalla nascita della psicologia del profondo, gli analisti sono giunti alla sconcertante scoperta che questo scavare e tornare al passato per scoprire traumi ed eventi rimossi serve a poco, se non a nulla, almeno su un piano terapeutico. (…) Gli obiettivi clinici che si raggiungono nel corso dell’analisi sono in realtà frutto di un altro processo, processo molto spesso sottovalutato. Questo fattore terapeuticamente efficace è costituito dalla relazione fra paziente e analista, rapporto grazie al quale è possibile inserire dei nuovi elementi nella vita del paziente così da ristrutturarla. Si noti allora la differenza fondamentale. Non è lo scoprire, ma l’inserire il fatto determinante di un miglioramento analitico. Un disturbo nevrotico non può guarire se, a parte la nuova consapevolezza, tutto rimane come prima.

La relazione è la capacità di stare dinanzi alla propria vita con umiltà ricordandosi che

"la scelta di questa professione affonda in parte le sue radici su un’impossibilità di affrontare in altro modo la propria sofferenza psicologica, su una sorta d’inguaribilità del proprio disagio che costituisce il bene più prezioso dell’analista, poiché alimenta costantemente la sua capacità terapeutica e la sua creatività analitica".

In questo senso sia l’analista che il paziente sono in cammino e si danno scambievole aiuto nel percorso "interminabile" che li separa dalla loro realizzazione.
La psiche, l’anima dell’uomo, turbata dai conflitti che si porta dentro e dagli avvenimenti che ha dovuto subire suo malgrado, troverà nell’alleato che cammina al suo fianco il sostegno per osare, per credere in se stessa ed esprimersi come mai aveva fatto prima.
La terapia consiste, in questo caso, nel dinamizzare una situazione che genera sofferenza perché statica; l’individuo, senza speranze di cambiamento, si ripiega su se stesso generando sintomi che non sono altro che gridi di dolore, richieste d’aiuto e la rappresentazione del rifiuto della situazione che sta vivendo.
L’Opus a cui è chiamato colui che lavora con la psiche non è paragonabile a nessuna terapia farmacologica limitata alla guarigione per lo più sintomatica, ma attraverso i sintomi promuove lo sviluppo e la trasformazione dell’uomo.

Jung scriveva: "La sua fatica [dello psicoterapeuta] non va soltanto a beneficio di quel singolo paziente, forse insignificante, ma anche a beneficio suo e della sua anima e la sua opera rappresenta un granello infinitesimale sul piatto della bilancia su cui posa l’anima dell’umanità. (…) I problemi ultimi, fondamentali, della psicoterapia non sono una questione privata, ma rappresentano una responsabilità di ordine supremo".

Per tornare al tema dell’identità professionale vorrei aggiungere che le leggi ed i regolamenti sono fondamentali per esprimere e dare corpo ai contenuti che sono comunque antecedenti rispetto alla legge e che vivono nell’uomo sotto forma di pensieri, di desideri, di convinzioni e di interrogativi che lo spingono a cercare se stesso in un processo di approfondimento personale senza fine. La nostra identità professionale ha origine da questa consapevolezza che è indipendente dalla scuola o dal gruppo d’appartenenza.

Antonio Tirinato
Psicologia Toscana - Anno 6 n°3 - Dicembre 2000

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