Mauro Mugnai
Introduzione
Come avevamo accennato la volta precedente, soltanto a
partire dal XVIII secolo l'Alchimia fu finalmente ritenuta degna di essere studiata e
praticata al pari di altre discipline.
Molti dei principi, delle idee, dei simboli alchemici furono assunti da altre branche del
sapere, come la medicina, la musica e la letteratura. Ancora oggi, nonostante sia ritenuta
estinta o comunque una pratica estremamente bizzarra, è seguita da alcuni ricercatori.
Grazie poi alla psicologia, e in modo particolare a Carl Gustav Jung, si è compreso come
il valore del suo patrimonio di conoscenze non fosse effimero, ma può emanare ancora
tutto il fascino di una disciplina che racchiude in sé sia aspetti prettamente psichici o
metafisici, sia aspetti scientifici.
A partire dal XIV secolo l'alchimia assume, come dicevamo, anche un altro aspetto:
"l'Alchimia vera, l'Alchimia tradizionale - scrive André Savoret - è la conoscenza
delle leggi della vita nell'uomo e nella natura e la ricostruzione del processo attraverso
il quale questa vita, corrotta qui sulla terra dalla caduta adamitica, ha perduto e può
riacquistare la propria purezza".
Quindi un'opera di redenzione di tutto il creato, animale, vegetale e minerale che l'uomo
ha trascinato con sé nella sua corruzione. L'uomo può finalmente rinascere con essa e
attraverso di essa, riconquistando lo stato antecedente alla trasgressione e alla caduta.
L'Alchimista vuole realizzare, insomma, quel sogno eterno dell'uomo: la possibilità di
raggiungere l'Armonia Perfetta in ciò che è in basso così come in ciò che è in alto,
come prescrive la Tavola di Smeraldo di Ermete Trismegisto. La possibilità, cioè, di
reintegrare l'uomo nella sua dignità primordiale.
L'uomo arcaico, come ho accennato precedentemente, modificando con il fuoco la materia, si
sostituiva in qualche modo alla Madre Terra (e al tempo), portatrice dei minerali
'embrioni', o ne continuava l'Opera. L'Alchimista cominciò a trattare la Materia come nei
Misteri antichi è trattata la divinità. Il dramma mistico del dio, che determinava
nell'uomo l'immortalità attraverso l'esperienza della morte e della resurrezione
iniziatiche, viene proiettato sulla materia: le sostanze minerali 'muoiono' e 'rinascono'
a un altro modo di essere, sono, cioè, 'trasmutate'. Tale profonda intuizione ricorda e
nasconde in sé l'antichissima concezione della vitalità degli oggetti ed è omologabile
ai diversi momenti del ciclo vegetale, soprattutto alla morte e alla resurrezione dello
"spirito del grano", rinascita, cioè, in un nuovo stato dell'essere dopo la
morte del seme. Questo forse era il "segreto" tramandato oralmente durante le
iniziazioni Dionisiache e Orfiche. Concezione questa che nel tempo non si perduta, ma è
continuata nel Cristianesimo, anzi ne ha costituito una delle rivelazioni fondamentali,
perché "Cristo è il seme di grano che deve occultasi nella terra per risorgere
sotto forma di spiga". È la luce del sole che rinasce proprio nel momento della sua
massima discesa: il giorno solstiziale del Natale.
Per l'uomo arcaico che pensa in modo simbolico "un oggetto - scrive M. Eliade - non
è mai semplicemente se stesso (come accade invece per la coscienza moderna), è anche
segno o ricettacolo di qualcos'altro, di una realtà che trascende il livello d'essere
dell'oggetto". Per l'uomo primitivo non solo 'il pane e il vino' determinavano una
'comunione' con la divinità, ma ogni atto, ogni attività, ogni oggetto aveva un
significato anche religioso e mistico, e tutto veniva fatto in sua funzione. "[...]
Il campo arato è qualcosa di più di un pezzo di terra, è anche il corpo della Terra
Madre; la vanga è un fallo, senza cessare di essere un utensile agricolo; l'aratura [...]
un'unione sessuale diretta alla fecondazione ierogamica della Terra Madre."
Vi furono, tuttavia, nel corso della storia umana momenti in cui certe intuizioni
fondamentali non hanno determinato una maturazione della coscienza, né nuove analogie tra
diversi livelli di realtà come era avvenuto fino al XIV secolo, ma condussero a una
concezione arida del Cosmo e della vita, resero incomprensibile il simbolismo delle
Culture Tradizionali, distorsero i princìpi metafisici. Fu durante parte del Rinascimento
e soprattutto durante l'Illuminismo che tale diversa concezione cominciò a introdursi
nella coscienza occidentale. Si cominciò a perdere il significato mistico di omologia
Cielo-Terra. Si svilupparono teorie materialistiche, e l'uomo non si sentì più parte
dell'universo legato ad esso da vincoli magici, particella dell'Universo, collaboratore
felice dell'Opera Divina, ma ricercatore razionalista di una causa e di un effetto! Le
esperienze antiche e tutto un sistema di simboli divennero inaccessibili e
incomprensibili, ma senza scomparire del tutto, esse rimasero bagaglio culturale di pochi
iniziati che mantennero vivo un contatto, se pur esile, con l'antica sapienza. Ormai però
la cultura cosiddetta "ufficiale" non riconosceva più i suoi ideali metafisici,
o meglio non riusciva più a ritrovarli né a riconoscerli.
Per l'uomo moderno, che ha desacralizzato il Cosmo, è impossibile sperimentare il Sacro
nelle sue relazioni con la materia (e il reale che sta intorno) che comunque per l'antico
era espressione del divino.
A questo proposito vi vorrei esporre un'esperienza fatta da C. G. Jung che lo impressionò
molto. Jung racconta, in una sua pubblicazione, di un suo viaggio all'inizio del 1925 che
lo portò tra il popolo dei Pueblos del Nuovo Messico.
Jung aveva stretto amicizia con un capo dei Taos Pueblos. Il capo, che si chiamava Lago
Montano, gli confessò che non comprendeva l'Uomo Bianco, anzi lo riteneva pazzo perché
"pensa nella testa invece che nel cuore".
Un giorno, parlando dei "Bianchi Americani", il capo Lago Montano disse:
"Gli americani vogliono cancellare la nostra religione. Ma perché non ci lasciano in
pace? Ciò che noi facciamo, non lo facciamo solo per noi, ma anche a beneficio degli
americani, anzi del mondo intero, perché ognuno ne trae vantaggio. I Pueblos sono un
popolo che vive sul tetto del mondo e pertanto vicinissimo alla divinità e al Cielo e che
quindi sono più di ogni altro i figli di Padre Sole e con la nostra religione ogni giorno
noi aiutiamo nostro Padre a percorrere il Cielo. E questo lo facciamo non soltanto per
noi, ma per il mondo intero. Se cessassimo di praticare la nostra religione nel giro di
dieci giorni il Sole cesserebbe di levarsi e la notte regnerebbe eterna".
Da questo credo sia facile comprendere, per tutti come lo fu per Jung, quali fossero i
fondamenti della dignità dei Pueblos. Essi si consideravano i figli del Sole. La loro
vita era cosmologicamente significativa, come nell'uomo arcaico, perché aiutavano il
Padre e il Conservatore di ogni vita nella sua quotidiana ascesa e discesa. Essi si
ritenevano parte integrante indispensabile del dinamismo cosmico. Ed è per ritrovare
questa dignità, penso io, che l'Alchimista ricercava il dominio delle Leggi della Natura,
ma anche del SE, e la trasformazione dell'uomo come qualsiasi altro elemento.
Scrive un Alchimista: "L'alchimia è il segreto di riuscire a
fissare il Sole che si trova nel Cielo della nostra persona, così che possa illuminarla
all'interno e inondare con il principio della luce stessa i nostri corpi".
L'enorme energia presente nel processo alchemico sembra catturare letteralmente
l'alchimista trasportandolo, coscientemente o incoscientemente, in diversi stati del
reale, in una alterazione della coscienza tale che la nascita, la morte e la resurrezione
si realizzano nella materia e contemporaneamente, quasi fosse la materia stessa,
nell'operatore, per un fenomeno di simbiosi molto difficile da spiegare e da capire se non
psicologicamente. "La perturbazione dell'equilibrio logico della coscienza profana
dello stato di veglia - scrive René Alleau - sembra dunque costituire il principio
didattico dell'Alchimia", come testimoniano molti alchimisti con le loro esperienze
interiori e soprattutto con l'esistenza in Oriente di un metodo iniziatico analogo a
quello dell'Alchimia, il buddismo Zen.
L'illuminazione ("l'apertura del satori"), è raggiunta, ugualmente al metodo
alchemico occidentale, al termine di una lotta interiore estremamente aspra e di un
esaurimento totale delle contraddizioni logiche. Questo accostamento è particolarmente
interessante, perché l'alchimia occidentale non potrebbe essere studiata completamente
senza un riferimento all'alchimia cinese e Zen, cioè l'Alchimia Taoista, come aveva
intuito anche Jung. L'alchimista quindi, almeno dal XIV secolo, sia in Occidente sia in
Oriente agiva su se stesso, sul proprio corpo, sulla propria psiche e sulla propria
esistenza spirituale. Egli operava sui minerali per risvegliare se stesso, per entrare in
possesso delle potenze divine sopite nel suo corpo, accedendo ad esperienze iniziatiche
che, con il progredire dell'"Opera", gli "forgiano" un'altra
personalità. Questo è il significato, tanto caro agli Alchimisti, del termine "vitriol"
coniato da Basilio Valentino (Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum
Lapidem), "Visita le profondità della Terra e attraverso la purificazione
troverai la Pietra Segreta".
Ma esiste un altro simbolismo ancora più sconcertante. Esso
rappresenta, secondo un'interpretazione psicologica, la Matrice dalla quale è nato Gesù
Cristo.
Scrive Jung: "Se l'alchimista fosse stato in grado di rappresentarsi i suoi contenuti
inconsci, avrebbe per forza capito che lui stesso si era messo al posto di Cristo o
meglio, per esprimerci più esattamente, che non lui in quanto Io, ma in quanto Sé, si
era, come Cristo, assunto il compito di realizzare l'"Opus", non per redimere
l'uomo ma per redimere il Dio. E non solo avrebbe visto in sé l'analogo di Cristo, ma
avrebbe dovuto riconoscere in Cristo il simbolo del Sé. Questa immane conclusione -
prosegue Jung - rimase preclusa allo spirito medievale. Per lo spirito delle Upanishad è
autoevidente ciò che all'europeo cristiano sembra una vera follia. L'uomo moderno può
quindi considerarsi quasi fortunato se il suo impoverimento spirituale, al momento dello
scontro col pensiero e con l'esperienza orientali, è arrivato a un punto tale ch'egli non
nota nemmeno con che cosa s'è scontrato. Adesso egli può confrontarsi con l'Oriente sul
piano completamente inadeguato e quindi innocuo dell'intelletto, e lasciare che sia lo
specialista di sanscrito a occuparsi di queste faccende".
L'Alchimista, quindi, tende a restituire ad una parte dell'Universo e a se stesso la
dignità propria di Adamo e della Natura prima della Caduta, la dignità del popolo dei
Pueblos, organizza uno spazio in cui la storia si dissolve e rende conto della totalità
del mondo creato, esprimendo così la divinità, secondo un testo alchemico del XII secolo
ripreso da Rabelais nel suo "Gargantua e Pantagruele" e poi anche da Jung:
"Dio è una sfera infinita e intelligibile il cui centro è dovunque e la
circonferenza in nessun luogo".