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La malattia può essere considerata
una realtà “desacralizzata”?:
Medicina, psicologia e religione a confronto.

 

Ha ancora senso oggi parlare di "desacralizzazione" e di recupero di una dimensione "sacra" perduta?

Ha senso parlarne nei termini in cui tanto in passato ne hanno scritto e dibattuto antropologi, studiosi dei miti, storici delle religioni (pensiamo ad esempio a Kerenyi e a Eliade)? Ma soprattutto, è possibile farlo, evitando di introdurre la dicotomia, a prima vista inevitabile, "sacro"- "profano"?
Non sarebbe preferibile parlare in termini più moderni di "compito etico" e di "compito etico individuale" e delle difficili domande che la nostra condizione di uomini ci costringe a porci per obbligarci a "rispondere", a "udire" e a "vedere" tutto quello su cui stiamo diventando sempre più evasivi?
Da cosa possiamo ulteriormente affrancarci, da quali stereotipi, da quali "distanze", da quali illusorie acquisizioni?
Eppure nonostante le premesse, le "malattie" che arrivano oggi negli studi degli psicologi-analisti sono spesso una viva e tangibile testimonianza di qualcosa che comunque evoca una condizione "sacra" perduta.
Il malessere sembra non avere più una storia, una traccia, un contesto nel quale inserirsi, un prima, un durante e un dopo che ne abbiano determinato lo sviluppo.
Nella coerenza di questo smarrimento e disorientamento, l’individuo che arriva in analisi raramente si cura di questi processi, non cerca concatenazioni causali né significati, cerca solo un veloce pronto soccorso dell’anima come se fosse in un ambulatorio medico. Inoltre non ha tempo e "crede" di non avere strumenti per superare la fase più istintiva del suo malessere, quella che gli fa vivere il sintomo come panico e angoscia o quella razionale-collettiva che lo fa sentire strano, diverso, non normale, rispetto ad un concetto di normalità che tutto uniforma e che sempre più perde di vista il significato, il senso vero delle cose, in un mare morto di luoghi comuni e di stereotipi massificanti.

L'uomo moderno in generale si muove infatti in una infinità di ambiti il più delle volte "neutri", è sempre meno partecipe del suo universo individuale, tende a smarrire il significato del suo "spazio-tempo" "interno-esterno" e la sua dimensione più vera.
Inoltre, la continua divaricazione e la dicotomia fra interno ed esterno, corpo, mente, razionale, irrazionale, conscio, inconscio, frammentando l'unicità individuale,("individuo" starebbe etimologicamente per "indiviso"), rendono settoriale ogni esperienza e separato ogni intervento.
Così il sacerdote cura lo spirito, il medico il corpo, lo psicologo la psiche e così via.
Questa "non-religione" dell'uomo moderno, laddove non intendiamo per religione l’appartenenza ad un qualunque tipo di confessione, ma la capacità di "re-ligere", cioè di riunire insieme tutti i vari aspetti, equivale ad una nuova "caduta" dell'uomo.
"... Dopo la prima caduta e benché spiritualmente cieco, (...) Adamo, l'uomo primordiale, aveva ancora abbastanza intelligenza per ritrovare visibilmente le tracce di Dio nel Mondo. Dopo la prima caduta, la religiosità era precipitata a livello della coscienza distrutta; dopo la seconda, essa è caduta ancora più in basso, nelle profondità dell'inconscio, è stata dimenticata."
Ma se la prima caduta che Hegel definì una "caduta verso l'alto", fu forse l'uscita da uno stadio uroborico e fusionale, ed il peccato l'emergere della coscienza attraverso la conoscenza del bene e del male e l'inizio della vita individuale, la seconda caduta, continuando ad usare questa metafora, ci appare, in quanto perdita da parte dell'uomo del suo aspetto "religioso", un tradimento all'essenza vera individuale dell'essere.
Molte nevrosi, che per loro caratteristica si articolano per sistemi chiusi, raccontano appunto questa storia.
I sistemi chiusi esterni (ambito medico, religioso, psicologico, ecc.) corrispondono ad altrettanti sistemi chiusi interni, a rigidi modelli che non comunicano con altri modelli e che paralizzano la dinamica interiore bloccando ogni spinta trasformativa di crescita.
Il malessere nevrotico non accetta l'aspetto salutare del conflitto e con esso l'integrazione degli opposti, la corrente vitale viene bloccata perché l'individuo è diviso e separato, perché si perde dietro una continua logica disgiuntiva. Diverso e più ampio appare in questo senso l'orizzonte del pensiero orientale.

Scrive Thich Nhat Hanh in un bellissimo libretto del Centro Buddista Mahayana:

"Nella tradizione Buddista c'è un discorso del Buddha che parla della pratica dell'essere in contatto con le diverse parti del corpo.
In un altro discorso il Buddha ci ha insegnato il modo di toccare le nostre emozioni. Ci sono così tante emozioni in noi: piacevoli, spiacevoli e neutre. Forse ci sono in noi diverse emozioni che sono in conflitto tra di loro. Forse c'è una guerra più o meno nascosta in noi.
Ogni persona è il suo regno.
Il territorio di questo regno è composto dal corpo, dalle emozioni, dalle percezioni, dalle formazioni mentali e dalla consapevolezza.
Voi siete il sovrano di questo regno e dovreste sapere che cosa sta succedendo in questo territorio.
(...) Perciò è molto importante perlustrare il proprio territorio con molta cura. Il tipo di luce, di energia di cui avete bisogno per illuminare il vostro territorio è l'energia della consapevolezza. Perciò dovreste toccare profondamente il vostro corpo, le vostre emozioni, le vostre percezioni....."

La parola Buddha indica un individuo che è consapevole, che è presente, la radice Budh significa sveglio, attento.
Gli orientali fanno differenza tra un "Buddha" e un "non-Buddha". Un "non-Buddha" è un individuo che è consapevole solo raramente ma che potenzialmente ha comunque la natura del Buddha in sé.
Ogni essere umano è dunque potenzialmente consapevole. Lo diventa quando le sue emozioni, le sue percezioni e i suoi sentimenti anticipano azioni armoniche conseguenti. Lo diventa quando l'emozione e il sentimento non si collocano fuori dal corpo e il corpo fuori dal mondo circostante, lo diventa quando "re-lige" tutte le sue parti.
Nella cultura occidentale, se è vero che il corpo appare direttamente legato alla dissertazione filosofica "corpo-anima", "corpo-spirito" e "corpo-mente", è altrettanto vero che il corpo, l'anima, lo spirito e la mente sono diventati oggi sistemi chiusi, come li chiamavamo precedentemente, tutti separati tra loro. Eppure lo spirito, l'anima e la mente "abitano" il corpo.
Ma l'asceta punisce il proprio corpo per elevare lo spirito e lo scienziato usa l'intelletto e la mente per studiare si, il corpo, ma un corpo "pensato", staccato, biologico, meccanico e fisico.
Tutta la cultura occidentale si articola secondo una continua logica disgiuntiva che separa il bene dal male, la mente dal corpo, Dio dal mondo, il cielo dalla terra, lo spirito dalla materia, il soggetto dall’oggetto.
Percorrendo questa strada il corpo, vissuto come la ragione scientifica lo vuole, resta organismo malato da sanare, dimensione erotica da liberare o redimere, non è mai trascendenza, è semmai più spesso cadavere e tomba dell'anima.
All'interno di questo pensiero duale, la potenzialità della rappresentazione simbolica, della lettura simbolica, nel senso del sum-ballein che letteralmente significa "mettere insieme, riunire", è pressoché interdetta. A questa operazione scientifica unilaterale non sfugge la psicologia, che ha separato con lo stesso metodo sistematicamente disgiuntivo già adottato dalla medicina e dalla religione, la psiche dal corpo.

"... Per la psicologia, pensarsi contro se stessa, pensarsi fino in fondo, fino al fondo della sua origine storica, significa pensarsi contro questa antitesi dei valori che non la realtà, ma lo sguardo metafisico con cui la psicologia ha generato se stessa, ha instaurato.
E' uno sguardo che ancora ospita la psicologia come residuato di quell'idealismo che, a partire da Socrate e Platone, ha percorso l'Occidente come suo lungo errore. Da questo errore la filosofia si è emancipata con Nietzsche che ha denunciato quell'aldilà inventato per meglio calunniare l'al di qua, ma non la psicologia, che così rimane la più occidentale delle scienze e quindi la più metafisica, se per metafisica intendiamo il pensiero di separazione, il puro dia-ballein, da cui nascono quelle antitesi dove si disgiungono ragione e follia."
"Finché la psicologia considera il corpo nel suo isolamento, come corpo organico e non come corpo vivente in un mondo, finché si limita a raccogliere fatti, invece di interrogare i fenomeni, cioè gli eventi psichici per quel tanto che sono significativi e non per quel tanto che sono fatti puri, finché, non trascende i disturbi dell'organismo per trovarne il senso, che non è qualcosa che si aggiunge dall'esterno, ma è ciò in cui l'esistenza si esprime, la psicologia non potrà che collezionare una serie di dati insignificanti per aver scelto quel territorio delle scienze positive dove i significati sono esclusi, perché il metodo esige che ci si attenga esclusivamente ai fatti...".

La malattia dunque, fisica o psichica che sia, e per non disgiungere diremo l'unità psico-fisica, può diventare realtà "desacralizzata" nel momento in cui si esprime con una serie di dati e non più di significati, i soli che consentano un attento esame del senso dell'essere nel mondo e di come "l'esistenza si esprime".
Il corpo partecipa degli scambi simbolici della nostra vita o dell'assenza di essi. Il corpo non è senza interiorità, e la psiche non è solo interiorità, in questo senso il corpo "pensa", non è solo pensato dalla mente, è consapevole, soffre, prova, fa esperienza, il corpo ha bisogno di spazio "significativo" perché ridotto a semplice organismo, il sintomo diventa segno e il corpo è minacciato dalla morte. Tra le scienze positive, la medicina che ha circoscritto la malattia nell'organismo, ha perduto il "...senso esistenziale della malattia e della morte, l'unico che il malato può scambiare con chi lo assiste e lo cura (...) Le cause organiche quando sono comprese non fanno senso, non dicono nulla della deviazione interna subita dalla nostra vita quando ha incominciato a inoltrarsi verso la morte.
Non si muore
[solo] * per usura organica, ma perché la morte è immanente alla vita (...) Interrogati nel loro spessore organico, i corpi non dicono più nulla circa il senso della loro malattia.(...) Nell'apparenza del dialogo c'è in realtà il monologo della scienza con se stessa."
In Occidente anche la religione ha contribuito ad acuire la logica disgiuntiva tra "anima-corpo", "sacro-profano", "Dio-diavolo", "bene-male". Più Dio è diventato "perfetto" più "imperfetto" e precario è diventato l'uomo che ha ceduto a Dio, nel meccanismo proiettivo, la parte migliore di sé, quella "virtù" che nel passaggio lo ha lasciato carico solo del peso del "peccato".
Eppure Gesù aveva detto: " Il regno di Dio è dentro di voi" e aveva con questa affermazione reso l'uomo simile a Dio, lo aveva reso uomo religioso, uomo numinoso, uomo libero, uomo intelligente. Come in Buddha, l'insegnamento di Gesù sembrava indicare la strada del riscatto, della forza individuale, della "consapevolezza".

"Quando Gesù diceva: "Sono venuto a portare discordia tra il figlio e il padre, tra la figlia e la madre, tra la nuora e la suocera", non insegnava certo ad odiare genitori e parenti, ma esprimeva il principio che per essere veramente umani bisogna rompere i legami (...) e diventare liberi."

Nel suo sviluppo occidentale, il pensiero religioso ha con il tempo oscurato questo insegnamento ed ha smesso di parlare il linguaggio simbolico delle origini. La ricca fluttuazione dei significati delle parabole si è pressoché spenta. Nella logica separativa del punto di vista religioso odierno, la "salute ultima" che è dell'anima, è legata alla morte del corpo che è corpo da redimere, e nella radicalizzazione metafisica, la salvezza non riguarda l'al di qua, ma solo l'al di là. La malattia e la morte che riguardano l'al di qua, sono sottratte dunque alla ricerca dei significati, perché i significati appartengono all'anima e allo spirito.
La malattia, che si pone al centro tra la vita e la morte, diventa l'oggetto di contrapposti saperi e l'individuo, espropriato del proprio malessere, ne perde ogni significato individuale e sociale.
Nell’accecamento della visione del senso, la malattia, ormai davvero "desacralizzata", annota nel sintomo una serie di segni ma non è più in grado di essere letta nei suoi significati.
Eppure l'esperienza del "sacro", del "religioso", del "senso" sono alla base dell’esistenza.
"Ieros", "sacro", secondo il significato greco arcaico rimanda ad una condizione di "forza". Il sacro è dunque una realtà "forte", ricca di "potenza". Questa sorta di iniziazione (in-ire) rappresenta la realtà di chi è "andato dentro", di chi è "entrato all'interno".

I primitivi, che non conoscevano la logica disgiuntiva, non facevano alcuna distinzione fra la vita e la morte, perché entrambe facevano parte integrante di un unico processo trasformativo.
Per guarire l'ammalato, l'uomo primitivo che aveva fatto l'esperienza del "sacro", recitava riti cosmologici con fini terapeutici, l'ammalato veniva ritualmente fatto nascere di nuovo e per far questo, veniva fatto entrare nel ventre del mostro o nella capanna e poi fatto uscire.
La morte iniziatica preparava la nuova nascita, l'uomo "profano" lasciava il posto all'uomo "sacro".

"L'uomo delle società primitive ha cercato di vincere la morte trasformandola in un rito di passaggio. In altre parole, per i primitivi vi è sempre una morte di qualche cosa che non è essenziale(...).
Generazione, morte e rigenerazione sono considerati i tre momenti di un unico mistero (...) In uno di questi tre momenti non ci si può fermare. Il movimento, la rigenerazione si susseguono all'infinito".

Abbiamo voluto citare Eliade, da una parte per sottolineare la distanza che oggi ci separa non tanto dai riti (perché di "riti d’oggi" anche se inconsapevoli e compulsivi è piena la nostra vita) quanto semmai dalla presenza al rito, dalla consapevolezza al senso del rito, dalla sacralità (per usare ancora questo termine) e credibilità del rito, dall’altra per considerare un’altra distanza, quella che oggi non ci consente più alcuna identificazione con i riti cosmologici, col ventre del mostro o con le capanne della rinascita.
Il nostro "sacro" va cercato altrove. In pratica la psicologia dei primitivi è scarsamente riconducibile alla nostra psicologia, quel linguaggio non ci appartiene e l’unica riconciliazione possibile possiamo affidarla alla suggestione che la narrazione ci evoca, quasi fosse una tensione metaforica.
E la narrazione evoca sicuramente un senso di maggior presenza, di maggior partecipazione, sia pure svolta in termini "magici", della primitività al "tutto".

Dicevamo precedentemente che il nostro "sacro" va cercato altrove ed ecco che ritorna l’ipotesi del "compito etico", come compito individuale, e delle conseguenti domande sulla nostra condizione di uomini è un problema di ascolto profondo, di dare risposte a quello che udiamo e vediamo imparando ad "udire" e a "vedere".

Inoltre, rispetto al nostro tema, la "malattia desacralizzata", va forse rimessa in gioco la "verità" delle tre supposte teorie della conoscenza, quella medica, quella psicologica e quella religiosa, almeno quando la "verità", con un compiacimento teorico troppo narcisistico, trama a rendere l’uomo estraneo a se stesso, diviso, svuotato di senso.
Il vero luogo del problema della "desacralizzazione" può essere occupato solo dal soggetto e dal suo significato. E con esso, anche da tutte le teorie della conoscenza, purché abbiano accettato di incamminarsi verso una "narrazione significativa".
La malattia infatti, spogliata ed espropriata di "narrazione significativa", sia essa della medicina, della psicologia o della religione, poco importa, evoca solo una grande "ombra" che minaccia il corpo di morte.
Disabitate di significati ed abitate unicamente di dati, la malattia e la morte disgregano una vita fantasma trascorsa in un involucro biologico.
Eppure, aveva scritto Nietzsche in Così parlò Zarathustra, "C'è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza".
Ancor oggi è significativo parlare di una realtà desacralizzata e cercare di riscoprire una sacra dimensione perduta.
Il disagio che gli psicologi-analisti incontrano nei loro studi è spesso una testimonianza vivente e tangibile di qualcosa che evoca una sacra condizione perduta, intesa come una propria individuale e peculiare condizione interiore.

 

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La malattia può essere considerata una realtà "desacralizzata"?:
Medicina, psicologia e religione a confronto.

Donella Bigazzi, Carlo Alberto Cicali, Iva Fabbri,
Dario Squilloni, Antonio Tirinato

In   "Il Futuro dell'uomo" Anno XXII (1995) n° 1