Critica |
"Più che un
film di paura, 'The Village' è un film sulla paura: la paura
che assedia l'America dopo gli attentati alle Twin Towers; la
paura, che ne ha fatto un Paese protetto fino
all'autoesclusione; la paura che i governanti usano come
strumento di potere e di controllo della vita degli altri. Lì
accanto, la nostalgia di un mondo innocente e aurorale, da cui
l'America è stata definitivamente risvegliata all'inizio del
millennio. 'The Village' è anche un film (non d'amore ma)
sull'amore. L'amore si presenta come l'altra faccia della
paura, che consente di non farsi annientare ma di crescere, di
superarsi anche attraverso prove dolorose. Distinguendo in
modo netto tra superstizione e fede, il film tocca il livello
alto della parabola, mille leghe avanti alla gran parte dei
thriller orrorifici in circolazione. E tutto ciò senza
togliere un'unghia di paura, né del piacere di spaventarsi
davanti a uno schermo." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 29
ottobre 2005)
"'The Village' sembra 'La fattoria': e
lo è, consapevolezza dei personaggi più giovani in meno. Ma
non è questa la ragione per la quale 'The Village' lascia
freddi. C'è soprattutto la sproporzione fra attese ed esito:
se Shyamalan fosse un esordiente, il suo film si segnalerebbe
come superiore alla media della produzione cinematografica
americana; per non dire di quella italiana. Ma c'è ormai chi
lo chiama maestro. Poi - come 'Big Fish' di Tim Burton - 'The
Village' è velleitario e prolisso, anche per chi conosce i
ritmi mai frenetici del regista d'origine indiana. Per quasi
due ore qui non succede nulla. E il finale è degno di un
episodio della serie tv 'Ai confini della realtà', spesso
arguti, certo, ma vecchi di mezzo secolo. Infine, qui non c'è
il cupo mistero del 'Sesto senso', né la nicciana durezza di
'Unbreakable': solo autocitazioni dal fiacco 'Signs'. Qualche
unghiata, comunque c'è, ma sfuggirà ai più: l'irrisione del
'beati gli ultimi', con lo scemo e la cieca del 'Village' che,
in quanto presunti innocenti, possono sfidare la minaccia
delle creature del bosco; alla logica della proprietà privata,
che devia le rotte degli aerei, se qualcuno d'importante tiene
alla pace." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 29 ottobre 2004)
"Il tipo di film prediletto dal regista americano
trentaquattrenne M. Night Shyamalan, vicende soprannaturali di
convivenza tra vivi e morti, thriller di fantasmi ha ottenuto
nel mondo occidentale grandi e significativi successi: quasi
che la gente cercasse fuori delle religioni altre fedi, altre
speranze. (…) Gli spettatori vengono immersi in grovigli di
simboli, il thriller può suscitare molte interpretazioni,
l'incubo di un passato terribile si scioglie soltanto alla
fine. Attenzione al colore giallo: sia nella accezione
luminosa dei fiori di campo e del sole, sia nei toni più
spenti, non è innocente." (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 29
ottobre 2004)
"Piacerà alla sempre più folta schiera
dei fans di M. Night Shyamalan, il regista di origine indù,
che dopo tre en plein (Sesto senso', 'Unbreakable' e 'Signs'),
s'è conquistato il fatidico 'nome sopra il titolo'. Come
Alfred Hitchcock. Nel cast ci sono Sigourney Weaver e William
Hurt, ma sul manifesto li han messi, volutamente a caratteri
illeggibili. Il film ha almeno una ventina di scene che
strapperanno il griderello alle spettatrici in vena di
esternazioni. (...) Ma 'The Village' ha anche il fascino delle
più cupe favole gotiche. Che è l'odissea attraverso il bosco
della piccola Bryce Dallas Howard se non una rivisitazione di
Cappuccetto Rosso con gli aliens al posto del Lupo Cattivo?."
(Giorgio Carbone, 'Libero', 29 ottobre 2004)
"Un
microcosmo così perfetto e autosufficiente che odora di
metafora lontano un miglio e quando la metafora è troppo
scoperta, si sa, il film ne risente. Specie se il regista
applica la sua innegabile maestria a uno schema narrativo che
cominciamo a conoscere: mistero, minaccia (soprannaturale o
meno), quasi-invisibilità della minaccia, rivelazione finale.
Vedi 'Il sesto senso', 'Unbreakable' o 'Signs'. Ma Shyamalan
non è mai stato così consapevole dei propri mezzi e da 'The
Village', malgrado l'atmosfera, la tensione, la bellezza
sinistra delle immagini, si esce pensierosi ma delusi. Come se
improvvisamente il prestigiatore scoprisse un gioco più grande
di lui. Magica comunque l'esordiente Bryce Dallas Howard, la
ragazza cieca. Imbarazzato e rivelatore invece Adrien Brody
nei panni del demente, anello debole della storia." (Fabio
Ferzetti, 'Il Messaggero', 29 ottobre 2004)
"Un inizio
molto faticoso. Per l'inevitabile delusione di chi s'aspetta
dal giovane maestro M. Night Shyamalan paure fragorose,
trasalimenti in serie e overdosi di horror al 100 per cento.
(...) Rispetto all'ottimo 'Il sesto senso' e ai buoni
'Unbreakable' e 'Signs', Shyamalan perde qualche colpo perché
la consapevolezza dei propri mezzi lo porta ad allungare i
tempi e le inquadrature, a giocare troppo con le atmosfere e
ad allentare la tensione inseguendo metafore alquanto
ambiziose. Tra le quali vanno catalogate il moderno terrore
dell'ignoto, la tendenza globale all'isolamento xenofobo,
l'ardua ricerca di un'idea di spiritualità e il dovere di
prendere in carico il proprio destino superando debolezze
infantili e ancestrali paure. La suggestione della fotografia
e l'adeguatezza degli interpreti (la ragazza cieca è
l'esordiente figlia del mitico Ron Howard) confermano,
comunque, il talento del regista più vicino ai fratelli Grimm
oggi a disposizione." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 30
ottobre 2004)
|