Trama |
Mentre
l'ingegnere americano Bill Markham visita con la famiglia il
cantiere aperto nel cuore della foresta amazzonica in cui si
sta costruendo una gigantesca diga, una tribù indigena (sono
quelli del "popolo invisibile") gli rapisce il figlioletto
Tommy. Passano invano dieci anni (le ricerche non sono mai
cessate) e finalmente Bill, addentratosi nella foresta,
ritrova miracolosamente il ragazzo, ormai diciottenne (e che
gli salva la vita, poiché Bill è stato aggredito e gravemente
ferito dagli indios di un'altra tribu'). Tommy ha sempre
vissuto con i suoi rapitori, che lo hanno affettuosamente
adottato e che lo amano molto. Ma colui che gli indios
chiamano "Tomme" non torna a casa sua: ormai è un guerriero,
parla la lingua del "popolo invisibile" e con questo vive
benissimo, tanto più che si sposa con una graziosa fanciulla.
Da sempre, tuttavia, la tribù è perseguitata da quella del
"popolo feroce". Mentre Bill, curato a dovere, se ne torna al
suo cantiere, i rivali degli "invisibili" attaccano il
villaggio, momentaneamente sguarnito degli uomini, portandosi
via le donne, destinate ad un bordello, gestito da uomini
bianchi al di là della foresta, e ciò in cambio di armi
automatiche e munizioni. Tommy allora si reca dal padre,
chiedendo il suo aiuto. Con due o tre uomini chiamati al
seguito, Bill si precipita insieme al figlio nel luogo
malfmato, fa una sparatoria e riesce a far scappare la moglie
di Tommy e le sue compagne. Gli "invisibili" sono ormai assai
ridotti di numero, il loro capo (che è il padre adottivo di
Tommy) è caduto durante gli scontri ed ora il giovanotto è il
capo riconosciuto di una comunità di autoctoni - una delle
tante - che dighe ed autostrade sterminano e respingono sempre
più a monte nelle immense foreste dell'Amazzonia. Lasciato per
sempre il figlio, Bill Markham decide di far saltare la diga
ormai ultimata, causa ed origine di tanti lutti ed infelicità.
Ma la "grande pioggia" invocata dagli indigeni con riti
propiziatori, spazzerà via con la enorme barriera di cemento
anche la violenza e la intrusione della "civiltà" dei
bianchi. |
Critica |
"Boorman ha
dedicato tre anni alla preparazione e alla produzione di
questo film, girato con una troupe anglo-brasiliana e un
direttore della fotografia francese, Philippe Rousselot
('Diva'). Il film possiede una suggestiva tessitura
audiovisiva e una ingenuità che può offrire il fianco a
parecchie riserve, a un'accusa di schematismo e persino, come
è capitato a Cannes, all'irrisione. A noi sembra, invece, una
qualità positiva, funzionale allo spirito del racconto e alle
intenzioni dei suoi autori (mi riferisco anche a Rospo
Pallenberg, fedele collaboratore di Boorman), duramente
critiche verso la civiltà occidentale, rappresentata nei suoi
connotati di dominio, violenza, sfruttamento, corruzione,
civiltà che è contrapposta a una visione del mondo dove la
natura e qualcosa da trasformare non in schiava ma in nutrice,
con la quale convivere in rispettosa simbiosi. A questo tema
centrale, già presente in altri film di Boorman (specialmente
in 'Excalibur'), altri motivi s'aggregano: la ricerca, lo
scontro e il confronto tra individuo civilizzato e ambiente
selvaggio, il rapporto padre-figlio, la foresta come luogo
dell'utopia stretto d'assedio. Qualche concessione agli
stereotipi dello spettacolo esotico made in Usa è riscattata
dalla ricchezza delle invenzioni, dall'alto virtuosismo di
linguaggio, dalla capacità di dilatare o comprimere la
dimensione temporale della narrazione." (Morando Morandini,
'Il Giorno', 6 Dicembre 1985)
"Benché Boorman sia
inglese, il film ha infatti lussi e ridicolaggini
hollywoodiani soffre di nepotismo perché il regista ha
chiamato a interpretarlo suo figlio, l'insulso biondino
Charley Boorman (gli preferiamo Powers Boothe nella parte del
padre), e troppo spesso coglie il pretesto per esibire
signorine svestite. Ma non per ciò 'La foresta di smeraldo' è
tutto da respingere. Mentre ai cinéphiles ricorda Sentieri
selvaggi di Ford (col finale rovesciato), nel filone freccia
contro bulldozer ha una sua efficace tenuta narrativa prende
lo spunto da fatti veri (il rapimento del figlio di un
ingegnere peruviano nel 1972), e quasi ci persuade, se
dobbiamo vivere pericolosamente a imbarcarci per l'Amazzonia.
Chissà non ci trovassimo davvero in un mondo più recondito e
intenso di quello decrepito che, per voler tutto spiegare con
la ragione, ci si disfa fra le dita." (Giovanni Grazzini, 'Il
Corriere della Sera', 6 Dicembre 1985)
"La fantasia
dilata ma, volendo, accorcia anche le distanze: ecco dunque
ancora atmosfere iniziatiche, il significato dell'Universo;
parossismo, il visionario, il naturale e il soprannaturale,
l'allucinazione e la fredda ragione; mentre la cifra narrativa
del marasma riesce a cogliere e a svelare segreti inviolabili;
spingendo a riflessioni metafisiche e sociologiche. Senza
intaccare, però, il senso dell'avventura che comunque è
predominante sostenuto dalla sceneggiatura di Rospo Pallenberg
(ex critico, nato ed educato in Italia) attente alle
annotazioni di carattere folclorico in altalena con le
esigenze dello spettacolo, e dalla musica di Junior Homrich,
compositore pop-rockjazz. Il protagonista, ovviamente, è
Tommy, cioè Charley Boorman, figlio del regista un belloccio
che - tutto sommato - se la cava in un ruolo non sempre
facile. Il padre è Powers Boothe. Con loro alcuni veterani
della ribalta teatrale." ('Il Tempo', 31 Ottobre 1985)
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