Critica |
"Ogni
generazione conta due - tre cineasti eccezionali. Von Trier
(con Kitano, con Scorsese..) è uno di questi e il suo film ci
stupisce una volta di più. In un certo senso 'Dogville'
ribalta 'Dogma', il manifesto del '95: al posto dei luoghi
autentici, della luce naturale e degli attori spontanei una
scenografica convenzionalizzata come a teatro, luci
artificiali, una superstar. Il film è diviso in nove capitoli
e un prologo, come un romanzo, e raccontato dalla voce di un
narratore onnisciente. Forse sono gli strumenti linguistici di
un nuovo corso, che Lars chiama 'cinema fusionale' (cinema +
teatro + letteratura), perfettamente funzionali alla
realizzazione di un'atroce, magnifica parabola sui rapporti
sociali. (...) Un film da Palma d'oro, dove Von Trier sfrutta
al meglio il talento della Kidman: mostrare un viso d'angelo,
facendo affiorare per gradi tutta la ferocia del personaggio".
(Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 20 maggio 2003)
"L'ultima follia di Lars Von Trier è un film lungo tre
ore, buio e bisbigliato, tutto girato in teatro di posa ma
senza scenografie. C'è qualche mobile, ci sono i costumi e i
rumori d'ambiente. Ma non ci sono gli ambienti. Niente case,
niente strade, alberi o pareti. Solo segni e scritte per
terra: casa di Chuck, viale degli Olmi, cespugli, etc. Quanto
basta a creare Dogville, piccola città mineraria Usa negli
anni della Grande Depressione. Ma non è una semplice follia.
E' la premessa, geniale, di un film che non lascia nulla come
prima. Né per il cinema né per il suo autore. (...) La
grandezza di 'Dogville' sta anche nella sapienza dello script,
nel cast, nella scelta di girare in Danimarca ma in inglese.
Perché un paese è la sua lingua e c'è più America in Lauren
Bacall, Ben Gazzara, James Caan, Chloe Sevigny, che in tutte
le Montagne Rocciose. Dopo tutto, l'America è anche un luogo
dell'anima. Il luogo in cui, oggi, i meccanismi del Potere
sono più macroscopici. E riproducibili". (Fabio Ferzetti, 'Il
Messaggero', 20 maggio 2003)
"Tanta letteratura.
Risolta per di più con gli schemi del teatro. Lars von Trier,
infatti, che firma il film, ha rinunciato del tutto a quelle
teorie del suo Dogma 95 decise nel pretendere ambienti
autentici, luci naturali e interpreti non professionisti. Ha
immaginato una città solo indicata da segni sul pavimento, con
case senza muri e con pochi arredi, facendo sentire i rumori
di porte e finestre anche se non ci sono e costruendovi
attorno delle cornici stilizzate al massimo, a cominciare
dalle Montagne Rocciose risolte con la legna e cartapesta. In
mezzo l'azione, con riferimenti, per tutti quei simboli di
cose assenti, alla celebre 'Piccola città' di Thornton Wilder,
capolavoro, negli anni Trenta, del teatro d'avanguardia. Però
se questa azione si segue (spesso a fatica), lo si deve non
tanto ai suoi snodi narrativi, statici, verbosi e prolissi, ma
ai modi di regia con cui Lars von Trier l'ha, alla lettera,
portata in scena. Composizioni figurative perfette, luci
suggestive, quel nulla in palcoscenico che si fa vita reale,
anche se dimentica il cinema. Grace è una Nicole Kidman ormai
grande attrice. Con comprimari celebri al suo fianco,
americani e scandinavi." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 7
novembre 2003)
"Lars Von Trier ha fatto con Nicole
Kidman bravissima un film molto bello e un poco difficile.
(...) Lo stile è quello drammatico delle opere di
Brecht-Weill; distanza e distacco cancellano ogni emotività,
commozione o sentimentalismo; secondo l'autore si tratta di
'cinema fusionale' che condensa teatro, letteratura, film. Ma
potrebbe anche essere una parabola sul destino degli immigrati
del Terzo Mondo in Europa: prima accolti con dimostrativo
altruismo, poi sfruttati sul lavoro, poi maltrattati tanto da
suscitare una aggressiva rivolta." (Lietta Tornabuoni, 'La
Stampa', 7 novembre 2003)
"Anche con quaranta minuti
in meno 'Dogville' rimane sufficientemente se stesso per
dividere il pubblico come è successo a Cannes: qualcuno,
convinto che Von Trier abbia inventato il cinema, l'amerà:
qualcuno l'odierà, irritandosi per le trovate a effetto del
danese; e qualcuno (fra i quali chi scrive) si collocherà nel
mezzo, in una gelida indifferenza, la stessa che provammo
all'uscita da 'Dancer in the dark'. Inutile dire che
l'indifferenza è proprio ciò che manderebbe in bestia Von
Trier, geniale press-agent di se stesso, regista in cui
indubbio talento è finalizzato a far parlare sempre e comunque
di sé. Von Trier vuole stupire, indignare, farsi amare o
odiare. Con noi casca male: non lo amiamo non lo odiamo."
(Alberto Crespi, 'L'Unità', 7 novembre 2003)
"Nell'affrontare la descrizione di un paese dove non è
mai stato, quasi imitando i nostri grandi americanisti da
Vittorini a Pavese, Von Trier (anche se lo nega) si è
ricordato di un dramma che ebbe successo poco prima della
Seconda Guerra. Come in 'Piccola città' di Thornton Wilder c'è
un narratore (presente però soltanto in voce), non ci sono
scenografie realistiche, appena i tracciati sul pavimento
dello studio e pochi elementi di arredo. Tira un'aria da
vecchio teatro moderno che sulle prime sembra un residuo di
avanguardismi superati, ma nel procedere dell'azione si entra
nel gioco e se ne intendono la raffinatezza e la necessità. La
suggestione nasce dallo stile (inquadrature, illuminazione,
montaggio) e dalla presenza di attori che andrebbero elogiati
uno per uno. Il sentimento che pervade la finta tragedia
americana è di un pessimismo agghiacciante." (Tullio Kezich,
'Corriere della Sera', 8 novembre 2003)
"'Dogville' è
agli antipodi di 'Witness' di Peter Weir (1985) e ricorda
'Gente di rispetto' di Luigi Zampa (1975). La sua morale è che
nella plebe identitaria del paese o sei nato o resterai sempre
un estraneo. 'Dogville' un film antiamericano? Ma la cittadina
californiana, che sembra un'utopia è un incubo, è già
nell'Invasione degli ultracorpi' dell'americano e
hollywoodiano Don Siegel (1956). 'Dogville' condanna non
l'America, ma il modo di vita dei piccoli centri; se condanna
di più quelli dell'area germanico - scandinava protestante, è
perché l'autore, regista e protagonista conoscono meglio quel
mondo. Oltre a un'esigenza di risparmio, la riduzione degli
ambienti a qualche sedia e qualche letto sul pavimento, con
porte inesistenti e stanze dai perimetri indicati da righe di
gesso sul pavimento, vuol far capire che ovunque ci siano poca
gente e molta miseria, lì c'è una Dogville." (Maurizio Cabona,
'Il Giornale', 7 novembre 2003)
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